Il
‘centravanti’ più
classico della storia del nostro calcio ci ha lasciati. Ma
Giampiero Boniperti non è stato solamente un grande
giocatore e un grandissimo
presidente della
Juventus. Egli era, soprattutto, un profondo conoscitore
dell’animo umano. Fu lui il primo a individuare
Gaetano Scirea nelle giovanili
dell’Atalanta: un ragazzo eccezionale, sia come difensore, sia come uomo.
Giampiero Boniperti era uno di quei dirigenti che
parlano poco, ma
fanno i fatti. Non si trattava di
pragmatismo ‘piatto’, come quello in gran voga in questi tempi di
‘società liquida’, dominata da una serie di
codici ‘binari’, che non contemplano la
terza dimensione: la sua determinazione si imperniava su una serie di presupposti che variavano
dall’antropologia liberale al
cattolicesimo moderato. C’era un
‘retroterra’ nel suo pensiero: un’antica
saggezza contadina. E si trattava di
princìpi ben saldi, che gli permisero di attraversare gli anni della
grande trasformazione italiana. Da
calciatore, egli visse l’epoca, difficilissima,
dell’immediato dopoguerra e del successivo
‘boom’ economico; da
dirigente, seppe restare ben saldo alla guida di una squadra che arrivò a
vincere tutto. Se davvero si vuol sapere chi mise le fondamenta di quella
Juventus che, in seguito, divenne l’ossatura della nazionale che vinse i
mondiali spagnoli del
1982, dobbiamo riconoscere che il vero
‘grande architetto’ di quella squadra fu proprio lui. Fu lui che scelse come portiere
Dino Zoff, strappandolo al
Napoli; fu lui che scoprì
Gaetano Scirea e
Antonio Cabrini; fu lui che un giorno, a
Como, s’innamorò di una mezzapunta come
Marco Tardelli, che suggeriva ma spesso realizzava
goal decisivi; fu lui che s'invaghì di un’ala tornante trasformato in
‘regista occulto’ come
Franco Causio; e fu ancora lui il vero scopritore di una
‘torre’ come
Roberto Bettega, quasi mettendosi alla ricerca di se stesso. Il suo pensiero era il seguente:
“Per costruire una squadra di calcio, fondamentalmente servono 4 giocatori: un bravo portiere; un libero efficace; un centrocampista intelligente; una ‘punta’ col senso del goal”. Da
ex attaccante, proprio nei riguardi dei
centravanti ogni tanto era
scettico. Per esempio, fu tra coloro che non credette al
primo Paolo Rossi, tesserato con la
Juventus ma subito mandato in prestito al
Lanerossi Vicenza, che già dopo un anno lo riscattò. Secondo
Boniperti, l'atipico
Paolo Rossi era
“fisicamente gracile”: un
‘rebus’ risolto, in seguito, da
Gibì Fabbri. Tuttavia,
Boniperti fece
‘centro pieno’ quando individuò
Roberto Bettega: il miglior colpitore di testa della seconda metà degli
anni ’70 del secolo scorso. Solo l’argentino
Daniel Passarella poteva essere considerato abile quanto lui, sulle
‘palle alte’. Ma
Passarella era solamente uno
‘stopper’, che si presentava nelle aree di rigore avversarie solamente per i
calci d’angolo, perché secondo un vecchio
schema inglese, nessuno può attendersi di trovare, davanti alla propria porta, un
difensore avversario. Insomma,
Daniel Passarella era anch’esso un colpitore di testa efficace, ma non era un centravanti di ruolo.
Bettega, invece, era una vera e propria
‘macchina da goal’, che tuttavia incontrò degli infortuni che non sempre gli permisero di farsi trovare puntuale agli appuntamenti di prestigio, soprattutto in nazionale. In ogni caso, ci pensò
Enzo Bearzot a completare il
‘Boniperti-pensiero’. Infatti, il tanto bistrattato
Bearzot fu un tecnico eccezionale esattamente per questo motivo: sapeva riconoscere
l’intelligenza altrui. Secondo il commissario tecnico friulano, la
teoria ‘bonipertiana’ era grossomodo corretta. Gli bastò recuperare
Paolo Rossi e inserire l’estro quasi sudamericano di
Bruno Conti e il
‘cerchio’ incontrò, finalmente, la sua
‘quadratura’ più perfetta.
Roberto Bettega, nel
1982 era infortunato. E allora
‘dentro’ il coriaceo
'Ciccio' Graziani. E nella finale del
Bernabeu, contro la
Germania, lanciò
Alessandro Altobelli: un giovanotto di
Latina, ma scoperto dal
Brescia, che in seguito divenne il degnissimo erede dello stesso
Roberto Bettega. Insomma,
Bearzot non s’inventò nulla. E quando decise di imperniare la sua nazionale, per
7/11esimi, sulla
Juventus di
Boniperti, tutti lo accusarono di essere
‘filo-juventino’, perché come al solito la
volgarità da
spalto calcistico la fa sempre da padrona, qui da noi. Quell’accusa era totalmente
infondata: in primo luogo,
Enzo Bearzot, da calciatore, aveva giocato come
mediano nel
Torino; in secondo luogo, egli aveva capito perfettamente la
‘visione di squadra’ che aveva in testa
Giampiero Boniperti. E fu questo il
‘valore aggiunto’ del nostro calcio in quegli anni: un
italiano che, vivaddio, aveva saputo riconoscere le
ragioni di un altro
italiano. “La visione del presidente era corretta”, confessò più volte
Bearzot. E tale confessione era la vera notizia che cercava, quasi inutilmente, di comunicare ai
giornalisti di allora. Purtroppo, in un Paese come il nostro, in cui ognuno, per
individualismo e
sterilità morale, fatica ad ammettere che qualcuno possa avere delle
ragioni più valide o possieda una visione
‘limpida’ delle cose, esprimere un concetto del genere significa
parlare un’altra lingua. Perché qui da noi, nessuno comprende veramente che quando si dimostra
l’umiltà di
riconoscere le ragioni di altri – dell’Altro sociologico – a partire da quel momento può
accadere di tutto. Persino un
miracolo.