Giovanni ManuntaSe è vero che scopo del terrorismo è quello di creare nella gente uno stato psicologico di insicurezza permanente, allora bisogna riconoscere che i terroristi, chiunque essi siano, hanno pienamente raggiunto il loro scopo: la gente, oggi, ha paura.
Questo rallegra di certo il terrorista, ma, stranamente, chi ha responsabilità di governo non si preoccupa eccessivamente di questo fenomeno e fa, invece, di tutto perché la gente rimanga in questo odioso stato psicologico. Non passa giorno senza un allerta, non c’è mezzo di comunicazione che non dedichi quotidianamente notevole spazio al fenomeno, non per tranquillizzarci, ma per rammentarci costantemente dei gravissimi pericoli che TUTTI corriamo.
Penso valga la pena di riflettere sui danni che si stanno così creando al capitale sociale, e di valutare freddamente se valga realmente la pena di subirli. Credo importante domandarsi, e domandare: quanto vi è di vero nell’informazione che riceviamo, quanto dovremmo preoccuparci, cosa possiamo fare per aumentare la nostra sicurezza?
Chi non sia interessato alla propaganda e diffidi dei luoghi comuni non può non osservare che:
• vi è un divario eccessivo tra la percezione qualitativa del rischio terrorismo e la sua dimensione effettiva;
• l’informazione pubblicamente disponibile è parziale, focalizzata, viziata, gestita;
• quella a disposizione dei governi, per quanto ne è trapelato, non è attendibile ed a volte si rivela addirittura falsa;
• oggi il concetto di terrorismo sembra includere tutte le minacce che la fantasia riesce a concepire, dall’attentatore suicida all’attentato chimico, biologico, nucleare, radiologico, ambientale, fiscale, giudiziale, pubblicitario, cibernetico, informatico, valutario.;
• gli scenari disegnati dagli esperti (almeno quelli che si definiscono come tali sui giornali e TV), sono rozzi, banali, basati su premesse e ragionamenti di dubbia validità.

Quanto sopra ci spaventa, ma non ci aiuta davvero a pianificare la sicurezza. Questa si basa su analisi circostanziate, asseverate ed aggiornate, non sulla fantasia o sull’informazione inattendibile. Possiamo davvero, noi comuni mortali, raggiungere delle conclusioni affidabili, se il ragionamento è basato su queste inaffidabili premesse? E su quali criteri di giudizio dovremmo invece basarci?
Per cominciare, non si può non notare che la confusione concettuale, unita all’abuso del termine, alla comunicazione esagerata e, in alcuni casi, alla sua strumentalizzazione, ha sulla gente tre conseguenze negative: esaspera la percezione del fenomeno, ma nel contempo lo banalizza, e crea l’effetto paraocchi.
Molti studiosi hanno evidenziato la differenza tra percezione e realtà oggettiva, citato Kasperson ed i sui studi sul fenomeno della cosiddetta “amplificazione sociale del rischio”, messo in guardia sul pericolo della sindrome del “noi e loro”, e quella della “fortezza” in questa fase storica naturalmente e tecnologicamente portata alla globalizzazione. Chomsky ha più volte sottolineato che lo sfruttamento politico-militare di questa amplificazione sociale del rischio percepito apre un grosso problema di sicurezza. La potenziale letalità delle minacce è oggi percepita dai governanti come talmente grave da meritare risposte proprie della guerra convenzionale, e queste risposte possono trascinarci, nolenti o volenti, in conflitti ben più gravi ed estesi, ingovernabili.
Wilkinson già da molti anni ha argomentato che il controterrorismo rozzo apre anche un problema di civiltà. I belligeranti, viste le premesse e le cause, si sentono sempre meno vincolati agli usi e convenzioni, parlano di “crociata contro il terrorismo” e tendono a dimenticare le salvaguardie di umanità e legalità così faticosamente conquistate dalla civiltà occidentale, quelle stesse che ci fanno odiare l’uso politico della violenza e della paura.
L’esagerazione, nel ricorso strumentale all’amplificazione della percezione del rischio, porta, alla lunga, all’effetto opposto, quello di banalizzazione, che è anch’esso gravissimo. Da un lato, gli esperti spuntano come funghi e l’uomo della strada diviene, ipso facto, anche lui un esperto. Dai tavoli istituzionali ed accademici, la discussione si è allargata, con benefici discutibili dal punto di vista dell’obiettività, ai caffè, all’autobus, al desco familiare. Dall’altro, gridare vanamente al lupo, magari con il supporto di fantomatici e, ahimè, segretissimi “rapporti di intelligence” esagerati, tendenziosi, o addirittura inventati, può far abbassare la guardia e perdere il consenso per azioni impopolari proprio quando queste servono ad evitare un pericolo reale.
L’effetto paraocchi è evidente. A furia di concentrarsi sul terrorismo, l’uomo politico e quello della strada sembrano aver perso di vista fenomeni gravissimi quali la criminalità organizzata e spicciola, le nuove e vecchie epidemie, la finanza creativa, i disastri ambientali, il razzismo, gli incidenti sul luogo di lavoro, in casa, sulle strade, l’analfabetizzazione crescente, l’impoverimento di larghi strati della popolazione, l’imbarbarimento della lotta politica, il disprezzo per la legge e per il più debole, l’indifferenza verso i grandi principi della filantropia, della prudenza, della giustizia, della tolleranza.
La seconda riflessione riguarda l’assenza, evidente nei decisori che realmente contano, di una visione strategica nel quadro di una prospettiva storica. L’uso malizioso, ed incolto, della tesi di Huntington sull’imminente scontro di civiltà ha riportato la visione delle relazioni internazionali di chi governa al tragico paradigma delle crociate, con tutti i suoi corollari teologici (Deus lo volt), ideologici (sono dei barbari), pratici (c’è opportunità di fare affari) e criminali (il saccheggio di barbari miscredenti non è peccato). Il fatto che le crociate abbiano radicalizzato il conflitto etnico - religioso, che lo abbiano esteso nello spazio e nel tempo, lasciando a decine di generazioni una tragica eredità di massacri, non sembra turbare i cultori di questa visione del mondo.
La terza riflessione è quella del cui prodest. Qui, i dietrologi e i cultori delle teorie cospirative si scatenano, non senza validi argomenti. Per rispondere, è prudente collocare il fenomeno nel contesto storico e metterlo a confronto con l’insieme degli avvenimenti, al fine di misurarne la relativa importanza e gli effetti. Senza per questo sottovalutare il fenomeno, che esiste ed è indubbiamente grave, bisogna anche riconoscere che molti studiosi hanno notato, già da molti anni, che:
- il termine terrorismo è viziato dalla confusione intellettuale che nasce dalla propaganda ed attività SOE (Special Operations Executive) della seconda guerra mondiale, dal terzomondismo degli anni che l’hanno seguita, e dalla guerra fredda. Sono sempre gli altri i terroristi, noi siamo nel giusto e quel che facciamo è sempre legittimato dai nostri nobili fini;
- l’antiterrorismo può essere un utile pretesto per azioni belliche e provvedimenti illiberali;
- l’antiterrorismo è un enorme business;
- la paura è un business e distrae la gente dai problemi reali;
- le perdite, civili e militari e le distruzioni sono anch’esse un enorme business e un utile pretesto per continuare nella violenza ingiusta.

In questo quadro, non si vede come si possa fare sicurezza se i nostri sforzi sono comunque invalidati da decisioni – che molti sostengono non disinteressate - di chi decide per noi e gioca sulle nostre paure. Dobbiamo, invece – in nome della sicurezza e del contratto sociale -, richiedere ai governanti maggior responsabilità, senso del bene comune e soprattutto prudenza nel comunicare e nell’agire. La Storia ha tragicamente visto all’opera troppi apprendisti stregoni, e l’umanità del terzo millennio non ha certo bisogno che ne sorgano di nuovi.


Presidente del Security and Risk Studies Institute www.srsi.org
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