L’On. Gennaro Malgieri è parlamentare di Alleanza Nazionale, membro della commissione esteri della Camera dei Deputati, nonché neo Direttore Responsabile del quotidiano ‘L’Indipendente’.

On. Malgieri, cosa pensa degli accordi di Sharm el Sheik stipulati di recente tra Sharon e Abu Mazen?
“La premessa indispensabile a qualunque giudizio è che la cautela deve rimanere massima, visto che dalla celebre stretta di mano tra Rabin e Arafat nel 1993 ad oggi sono stati molti gli incontri tra i leader delle due parti e tutte le volte, regolarmente, alle grandi speranze sono seguite nuove ondate di terrorismo da parte di Hamas e della Jihad e, di conseguenza, la stretta militare israeliana sui Territori si è rinserrata. Detto questo, non si può non prendere atto con soddisfazione che da Sharm el Sheik è giunto il concreto segnale che la pace è possibile e che, forse, sperare nella coesistenza tra Israele e una Palestina pienamente sovrana non è più l’utopia di pochi mesi fa".

Lei ritiene che questa sia la volta buona per imboccare definitivamente la ‘road map’?
“Penso che nessuno, a meno che abbia la palla di cristallo, possa dire se questa sia o meno la volta buona: non dimentico che due anni fa gli stessi Sharon e Abu Mazen (allora nella veste di primo ministro dell‘Anp), si trovarono d’accordo nel varare le tappe della ‘road map’, ma fino a Sharm non si è avverata nessuna delle condizioni allora stabilite. Tuttavia, la mia visione, molto pragmatica, non mi impedisce di fare due considerazioni. In primo luogo, le parole dette da Sharon e Abu Mazen di fronte all’opinione pubblica internazionale dopo il vertice sono molto impegnative, e già questo fa ragionevolmente immaginare che sia nel loro stesso interesse adoperarsi per mantenere le promesse. Anche perché i più recenti sondaggi confermano che entrambi i popoli sono stanchi di questa situazione di perenne stallo e che sono disposti a delle rinunce fino a poco tempo fa inimmaginabili pur di avere una vita normale e di risanare le rispettive economie che, pur ricordando l’enorme gap tra quella su livelli quasi occidentali israeliana e quella poverissima palestinese, stanno risentendo della situazione. In secondo luogo, gli ultimi eventi hanno confermato il ruolo decisivo che possono giocare i governi arabi moderati: l’Egitto ha organizzato il vertice di Sharm e si sta facendo garante della ristrutturazione delle forze di sicurezza palestinesi, mentre la Giordania è impegnata in una preziosa opera di mediazione. In una regione nella quale il radicalismo contro Israele ha sempre avuto la meglio, ciò rappresenta un segnale davvero confortante”.

E come si sta sviluppando, a suo parere, il dopo-Arafat in Palestina?
“In modo tutto sommato positivo. Il Paese non è caduto nell’anarchia, come molti temevano dopo la morte di Arafat, nel quale per trentacinque anni si era identificata la causa palestinese. Nonostante le perplessità che avevano circondato la presunta scarsa personalità di Abu Mazen, considerato più adatto a lavorare nell’ombra che a guidare un popolo, il neo-presidente dell’Autorità ha resistito alle pressioni politiche e si è attorniato nei ruoli chiave di esponenti fedeli alla sua linea. Altrettanto positivo è l’impegno assunto dal successore di Arafat per riformare in senso democratico le strutture amministrative e renderle più adatte a quello che dovrà essere il futuro Stato palestinese. Certo, resta la grande incognita dei gruppi terroristici: Hamas non si riconosce nelle direttive di Abu Mazen e gli Hezbollah continuano ad attaccare le colonie israeliane nei Territori. Ma, senza perdere di vista la realtà, è dovere di tutti mettere in luce i lati positivi della Palestina del dopo-Arafat".

Perché è sempre stato impossibile, sino ad oggi, impostare un più concreto percorso di pacificazione tra israeliani e palestinesi?
“Anzitutto perché negli ultimi sessant’anni, quindi già da prima della nascita ufficiale dello Stato di Israele, l’odio e la diffidenza reciproca è cresciuta fino a incancrenirsi. Alla base di questo odio non ci sono solo gli attentati terroristici che hanno insanguinato Israele e le insopportabili morti di civili e bambini palestinesi inermi sotto il fuoco dell’esercito di Gerusalemme. Vi sono anche motivi religiosi, culturali ed economici che hanno creato una matassa che oggi non è pensabile dipanare in pochi mesi”.

Quali sono le reali cause e responsabilità storiche della questione palestinese?
“Le cause risalgono anche a prima della Seconda guerra mondiale, quando tutti i soggetti coinvolti, compresi i britannici, che allora amministravano la Palestina, gestirono male l’aspirazione della diaspora ebraica di riunirsi nella terra dei profeti e la volontà degli arabi a non cedere. Riguardo alle responsabilità storiche del mancato avvio di un vero processo di pace, esse vanno attribuite a entrambe le parti in causa sin dalla nascita di Israele nel 1948. Venendo a tempi più recenti, una volta rientrato in patria dopo gli accordi del ‘93 Arafat ha badato più a consolidare la sua leadership e a ottenere i finanziamenti del mondo arabo e dell’Unione europea che ad avviare il necessario processo di democratizzazione interna e di neutralizzazione, anche a costo di un calo di consensi, dei gruppi estremistici. Sempre Arafat ha avuto pochi anni dopo la grande colpa di non accettare le vantaggiosissime condizioni offerte dal primo ministro israeliano Ehud Barak. Sull’altro versante bisogna sottolineare che tutti i governi succedutesi alla guida di Israele hanno mancato del necessario coraggio per andare oltre i pur importanti passi compiuti sulla strada della distensione. Forse soltanto Rabin ha tenuto un comportamento coraggioso e aperto e non a caso è stato assassinato”.

Lei giudica Abu Mazen un interlocutore credibile con il quale poter dialogare per una soluzione definitiva della questione israelo-palestinese?
“Intanto Abu Mazen, la cui scelta di rinunciare a questo “nome di battaglia” in favore del sua identità (Mahmoud Abbas) è altamente simbolica, appare un moderato non solo in funzione di quanto ha fatto da quando nello scorso gennaio è stato eletto alla presidenza dell’Anp, ma anche alla luce del suo precedente curriculum che lo ha sempre visto in prima fila, da Oslo in poi, lì dove c’era da trattare a far tacere le armi. La presenza alla guida della Palestina di un personaggio tanto preparato nelle tecniche di negoziazione è un’oggettiva garanzia della quale non si può non prendere atto”.

Lei non crede che i governi Netanyahu e Sharon si siano dimostrati poco predisposti per addivenire ad un compromesso con la controparte palestinese?
“Riguardo a Netanyahu, è la Storia a dirci che tra tutti i premier israeliani dell’ultimo decennio è stato quello meno disposto a venire incontro ai palestinesi. Anche oggi, nelle vesti di ministro delle Finanze, è a capo della corrente minoritaria all’interno del Likud che si oppone alla svolta di Sharon. Riguardo a quest’ultimo, peserà sempre il fatto di aver dato simbolicamente il via alla seconda Intifada con la provocatoria passeggiata sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme nel 2000. Ma è un fatto che a dispetto della sua fama di “falco“ sia stato proprio Sharon a sfidare il proprio partito e a rinunciare al decisivo appoggio dei partiti ultraortodossi al suo governo per progettare la partenza dei coloni ebraici dalla Striscia di Gaza. Le dure rappresaglie nei Territori, la costruzione della barriera difensiva e gli omicidi mirati come risposta al terrorismo hanno portato a tristi conseguenze sul piano umano, sociale ed economico. Ma il governo di Sharon è anche quello che è stato democraticamente eletto dagli israeliani e che oggi ha cooptato i Laburisti di Peres, da sempre schierati a favore della coesistenza con la Palestina. Il tentativo di Sharon di far convivere la vocazione alle “sicurezza prima di tutto”, che è connaturata nell’identikit politico suo e del suo partito, con l’apertura all’Anp va sostenuto e non può essere paragonato alla mancanza di buona volontà dimostrata a suo tempo da Netanyahu (senza dimenticare che quest‘ultimo, per quanto sgradevole in molti suoi atteggiamenti, era stato altrettanto democraticamente eletto dagli israeliani proprio sulla base di un programma esplicitamente contrario a offrire concessioni ad Arafat)”.

L’attacco alle Twin Towers ha causato una sorta di “revanchismo” israeliano che ha poi fatto il gioco delle frange più estreme di Hamas?
“Sinceramente mi sembra un po’ forzato collegare la tragedia dell’11 settembre con la dura escalation di atti terroristici palestinesi e rappresaglie israeliane. La seconda Intifada è scoppiata un anno prima degli attacchi alle Twin Towers e, fino a quando la discussa costruzione della barriera difensiva ha ridotto del 90 per cento gli attentati in Israele, si è sviluppata a costanti livelli di durezza”.

Qual è il suo giudizio storico-politico su Yasser Arafat?
“Senza dubbio c’è la consapevolezza del merito storico avuto da Arafat nel portare alla grande ribalta internazionale il dramma dei palestinesi, soprattutto di quelli che hanno passato e passano tuttora una vita misera e senza prospettive nei campi profughi. Ma gli aspetti negativi, dalle ombre che ne hanno accompagnato la carriera politica alle ambiguità verso il terrorismo, non sono da sottovalutare. Dopo il triennio di gloria 1993-96 - quando stipulò gli accordi con Rabin, rientrò in patria dopo il lungo esilio e vinse il Nobel per la pace - Arafat ha dilapidato il credito conquistato attraverso il suicida rifiuto dell’offerta di Barak e la mancata capacità (o, peggio, volontà) di costruire istituzioni democratiche, gestire con trasparenza i lauti finanziamenti ricevuti dall’estero e porre un freno all’estremismo palestinese. Queste lacune peseranno sempre come un macigno sulla sua figura. E il non aver fatto nulla per colmarle è equivalso a ritardare di molti anni la possibile nascita di una Palestina indipendente, che pure Arafat aveva sempre definito come lo scopo della sua vita”.
Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio