Più la sinistra è unita e più vince le elezioni? E’ vero il contrario: più la sinistra
si mimetizza e più sono alte le probabilità di successo.
Da
Romano Prodi ad Enrico Gasbarra (alla provincia di Roma), la sinistra ha vinto quando ha proposto agli elettori dei
candidati moderati, quando non
ex democristiani. La cosa curiosa è che l’alchimia politica, nelle due coalizioni,
premia gli estremisti e penalizza i moderati. Conseguenza, questa, di
un sistema maggioritario che non funziona.
Il sistema maggioritario, quando funziona, spinge i contendenti a
cercare i voti del centro politico. Negli
Stati Uniti è normale che la
sinistra liberal voti per
i democratici, così come che la
destra conservativa voti per
i repubblicani, ma le elezioni le vince chi riesce a dare espressione ai desideri ed agli interessi
dell’elettorato di centro, non schierato aprioristicamente.
In
Italia le cose vanno
al contrario.
La politica italiana, più che maggioritaria è
orfana del proporzionale e tende a riprodurne gli schemi predisponendo gli schieramenti e
facendo proliferare le formazioni politiche. Con il risultato che, anziché correre al centro, i due contendenti corrono
verso le estreme, subendone il condizionamento. L’idea è questa: in ciascuno dei due schieramenti deve starci tutto quello che si riesce a raccogliere, ogni piccola formazione può essere determinante,
ogni defezione è una tragedia. Questo modo di procedere crea più delle
macchine elettorali che delle macchine politiche, e il danno maggiore lo subisce
la sinistra.
Gli insaccati elettorali, difatti, non hanno un aspetto attraente, non hanno
identità precisa e raccolgono voti più per rifiuto del prodotto alternativo che per
consenso ed entusiasmo. Il risultato è che l’elettorato più politicamente avvertito, meno predestinato, è spinto
verso l’astensione.
Che, difatti, cresce in modo impressionante. E se il non voto era, un tempo,
espressione apatica da maggioranza silenziosa, quindi di ‘destra’, oggi è, in modo crescente, espressione del
rifiuto di questa politica, quindi di ‘sinistra’.
Per queste ragioni, sommariamente riassunte, la sinistra che chiama a raccolta unitaria tutte le forze disponibili, da Di Pietro a Bertinotti, per battere il centrodestra, è una sinistra che pensa ancora
con la mente condizionata dal proporzionale, che privilegia l’insaccato delle sigle
rispetto alla
riconoscibilità di una proposta che sia appetibile per chi si sente
cittadino, e non combattente. E’ una sinistra
prigioniera di una maledizione: pretende di battere il berlusconismo imitandolo. E mentre la sinistra diviene sempre più
insipida dal punto di vista politico e telegenica nei suoi candidati,
Berlusconi alza il tono dello scontro e sfrutta un’immagine che deriva dai contenuti (si veda la politica internazionale).
Si guardi il caso del
referendum sull’articolo 18. La sinistra finisce in trappola, balbetta, diventa indistinguibile, perché vive con terrore
l’idea di perdere un voto marginale a sinistra, presuntivamente rappresentato da Bertinotti. In realtà, quei voti non possono che essere di sinistra, mentre
quelli che si deludono e mettono in fuga sono proprio quelli del tutto disinteressati agli equilibrismi fra i relitti del vecchio partito comunista italiano.
Morale: una sinistra che volesse essere
di governo, che aspirasse alla vittoria, non avrebbe
paura delle fratture, delle scissioni, a patto che queste portino
a chiarimenti programmatici, all’elaborazione di una proposta
credibile e spendibile. Al contrario, l’unità, cementata a costo dell’indeterminatezza politica, è
il miglior contributo sulla via della sconfitta.