'Orione', il primo album di Matteo Nativo, è uscito lo scorso 11 aprile. Un disco d’esordio tra blues, ferite e rinascite: nove canzoni come stelle che illuminano la notte. C’è chi cerca la luce nelle stelle e chi, come Matteo Nativo, decide di scrivere la propria costellazione partendo dall’oscurità. 'Orione' è un’urgenza intima, un atto di resistenza emotiva: un blues che affonda le radici nella terra spezzata del cuore e si solleva fino alle armonie della rinascita. Pubblicato da RadiciMusic Records, è un racconto personale e profondamente umano, attraversato da chitarre 'fingerstyle', folk americano e memorie italiane, tra deserti interiori e cieli lontani. La scintilla nasce nel dicembre 2023, tra le macerie di una separazione e due canzoni nate di getto. Da lì, Matteo inizia a costruire una mappa di dolore e bellezza, intrecciando frammenti di vita reale a un suono che ha il profumo del sud degli Stati Uniti, la polvere dei bar del Vermont, l’eco di Tom Waits e il passo stanco ma fiero della Beat Generation. 'Che ora è', brano d’apertura, ha il peso di una confessione sussurrata nel cortile di una casa provvisoria a Ferragosto, quando il tempo sembra fermarsi e il dolore ha il volto del silenzio. E' in quel vuoto che la musica diventa salvezza. Matteo imbraccia la chitarra come un talismano, scava nella propria storia, e scrive. Lo fa senza difese, senza vergogna: solo con la verità. Nel cuore dell’album pulsa forte 'Clap Hands': un omaggio a Tom Waits, ritradotto e riarrangiato con delicatezza. Un’operazione che sa di amore e di rispetto. Insieme a 'Jockey Full of Bourbon', tradotto da Silvia Conti, questi due brani chiudono il cerchio con un’America evocata, vissuta e respirata. Nativo, del resto, l’ha attraversata davvero: Boston, il Vermont, New York. Le sue dita hanno imparato a parlare nelle jam session polverose, la sua voce a tremare in piccoli club e la sua musica a resistere dormendo in soffitte sconosciute. Ogni traccia di 'Orione' è un punto sulla pelle. C’è 'Ovunque tu sarai', scritta nel tempo sospeso della malattia, in cui l’amore si fa preghiera. E c’è 'Oradur', memoria di un villaggio francese mai ricostruito: un canto corale contro l’oblio della guerra. E poi 'Un’altra come te', la dolce ferita di un incontro fugace; 'Fantasma', con quel sorriso che sa nascondere il vuoto; 'Ultima stella del mattino', dove il passato e il futuro si tengono per mano. A chiudere l’album, il brano omonimo: stella guida e sintesi della rassegna. Scritto di getto dopo la morte di un amico, con la chitarra come unico interlocutore, racconta il momento in cui il tempo si spezza, ma la musica lo ricuce. E' lì che il cantautore fiorentino si mette a nudo: non c’è più distanza tra chi scrive e chi ascolta. La produzione, condivisa con Gianfilippo Boni, è curata, pulita, senza fronzoli. Ogni suono serve la narrazione. La 'line-up' è una famiglia musicale dove ogni musicista entra in punta di piedi: Fabrizio Morganti alla batteria; Lorenzo Forti al basso; Francesco Moneti al violino e molte altre anime, che hanno aggiunto colore senza sovrastare. Con 'Orione', il bravo Matteo Nativo firma una dichiarazione d’esistenza. Dopo anni di palchi, scuole di musica, jam notturne e chilometri di asfalto vissuto, il cantautore fiorentino fa il suo ingresso ufficiale nel panorama della canzone d’autore italiana con un lavoro che vibra di autenticità. E' un album che non ha paura di piangere, di ricordare, di celebrare. E che ci ricorda, in fondo, che anche quando tutto sembra perduto, ci resta sempre una chitarra, una canzone e un cielo da guardare. Magari cercando, tra le costellazioni, proprio 'Orione'. Per informazioni ulteriori, cliccare QUI e QUI.