Luigi Lo Cascio, interprete tra i più apprezzati del teatro e del cinema italiano, ci presenta il libro ‘La Caccia - nella tana’ (adattamenti rispettivamente da Euripide e Kafka) edito da Viennepierre edizioni, un volume che segna l’esordio narrativo dell’attore e che riunisce i testi teatrali degli ultimi due spettacoli da lui scritti, interpretati e diretti. Dal 10 al 22 febbraio, il suo spettacolo è in scena al Teatro Valle di Roma.
Luigi Lo Cascio, lei ha iniziato la sua attività proprio in teatro, anche se è al cinema che deve la sua notorietà: come è avvenuto questo passaggio?
“Ho iniziato a occuparmi di teatro col Css (Teatro Stabile di Innovazione di Udine) nel 1994 – ‘95. Avevo scritto ‘Verso Tebe’, in cui la vicenda di ‘Baccanti’ prendeva spunto non da un tiranno che voleva cacciare Dioniso, ma dalla necessità di allontanare gli esponenti del teatro. Già con Platone, nella sua ricerca della verità, il teatro aveva rappresentato una scelta ‘devastante’ per me, poiché quel testo toccava ‘vette’ spirituali. Poi, però, l’ho abbandonato per quasi sei anni per fare cinema. In ogni caso, teatro e cinema sono due cose ben distinte: le tecniche di recitazione sono talmente diverse che portano a percezioni di sé, della propria voce e del proprio corpo, molto differenti”.
In questi giorni, lei sta portando in scena ‘La Caccia’, tratto dalle ‘Baccanti’ di Euripide in una ‘chiave’ interpretativa assai moderna: che tipo di percorso ha voluto creare all’interno di questa tragedia?
“Un percorso complesso, di difficile interpretazione. La prima presa di posizione è stata la consapevolezza di non poterla rappresentare così com’era: l’unico modo era scrivere una variazione su uno dei possibili temi, ovvero quello della caccia. Tutti i personaggi si definiscono cacciatori, salvo che nel ‘ribaltamento’ finale, in cui diventano tutti prede. L’indagine è portata avanti da Pènteo, tiranno di Tebe, che ha smanie di purezza, il terrore di venir contaminato dall’esterno e che decide di affilare le armi contro il dio Dioniso senza rendersi conto che il bersaglio lo seduce fortemente. Egli parte da una posizione di dominio e di controllo per poi giungere verso un destino di frammentazione. Scoperto dalle baccanti, che lo riconoscono come straniero, sarà sbranato proprio da Agave, sua madre, convinta di uccidere un fiera selvaggia. C’è caos all’inizio e alla fine: non esiste ordine, ma solo l’esilio per la comunità. Il conflitto coinvolge tutto l’ordine sociale, che infatti ne rimane sconvolto. Dioniso si vendicherà in maniera smisurata, allontanandolo dalla città e punendolo con l’annebbiamento delle facoltà mentali”.
Pènteo perde la sua lotta contro il dio Dioniso per la sua tracotanza o semplicemente perché è un umano che ha osato sfidare un dio?
“Questo è un dilemma che spesso mi sono posto: possiamo affermare che ‘La caccia’ sia proprio lo ‘svolgimento’ di questo interrogativo. Pènteo, rimasto solo e visitato dai suoi fantasmi, ora solitari, ora raccolti nel coro delle sue allucinazioni, in realtà è un personaggio mosso da grandi contraddizioni, perché riesce a respingere Dioniso e, allo stesso tempo, ne subisce il fascino. Teoricamente, è il momento in cui si riconnette alla natura, si sgancia dall’io e trova la salvezza. Da cacciatore, Pènteo diventa preda e vittima di se stesso”.
In realtà si tratta di uno spettacolo multimediale più che di un ‘monologo’: è questo che lo rende così attuale e assolutamente inedito?
“Anche se sulla scena ci sono solo io, non può essere definito un vero e proprio monologo, perché la scena è molto animata. A parte alcuni blocchi narrativi che non esistono in Baccanti, un importante elemento di distanza da essa è il fatto di aver inserito un personaggio: uno studioso, un critico che si rivolge al pubblico e che dice: “E’ impossibile capire le Baccanti così com’è. Ci sono io e vi spiegherò tutto”. Nella sua presunzione è convinto di racchiudere il senso della tragedia in un unico concetto che si propone di svelare alla fine della rappresentazione, un procedimento metateatrale. Inoltre, al posto dei cori ho trovato dei ‘coroselli’, degli spot pubblicitari che rappresentano la ‘deriva’, la corruzione della collettività, poiché articolano domande e propongono soluzioni. Si tratta di una voce impersonale, mortifera, uno spirito antitragico, quasi ironico, il cui scopo non è la risata, sia pure amara, ma mettere accanto materiali eterogenei, come il senso del tragico accanto alla smania di onnipotenza suggerito dalla pubblicità. L’incontro di Pènteo con Dioniso determina uno sfaldamento delle sue capacità percettive. Vedere di quale natura sia questo mondo di allucinazioni è stato possibile grazie a uno scherma multimediale, che proietta continuamente immagini”.
Anche lo stesso Dioniso, grande assente sulla scena poiché non compare mai, viene ricordato come il dio della gioia e del divertimento, ma percepito in maniera diversa rispetto alla tradizione…
“Dioniso è un dio duplice, ambiguo: il dio della gioia e dell’annientamento, del piacere e del dolore. Non a caso, in alcuni frammenti si pone il dubbio che sia Ade, il dio degli inferi, che porta alla follia distruttiva. Poi c’è Hermes, Mercurio: una divinità scaltra, un lestofante, il dio delle interpretazioni e della diplomazia, ma anche un dio fanciullo, un dio bambino che è uno degli elementi di ‘scollamento’, di ‘frizione’ di questa rappresentazione”.
La critica ha parlato di ‘raffinato linguaggio espressivo’…
“Non è sicuramente un linguaggio quotidiano. Quindi, l’eventuale raffinatezza è legata alla scelta dei versi, per metà in endecasillabi. Il teatro, rispetto al cinema, permette di sperimentare sulla lingua d’uso. Nel cinema, io capisco che ci debba essere una lingua che inchiodi al naturalismo. Nel teatro, invece, si può utilizzare una linguaggio ‘trasfigurato’…”.
Alla fine della rappresentazione, lei ritiene ci sia una morale nella tragedia?
“La tragedia è una di quelle forme d’arte in cui lo spettatore, finito lo spettacolo, torna a casa e non pensa di saperne di più, ma di meno. Non si dà un risposta: ha un senso di disfatta, di perdita. Sono quei testi che agiscono in maniera corrosiva sulle nostre certezze, come se portassero lo spettatore ad articolare una domanda piuttosto che a darsi una risposta definitiva. Non vi è nessuna morale in essa, ma solo una profonda riflessione”.
Lei prima ha citato il cinema, venendo ricordato soprattutto per il ruolo di Peppino Impastato, la vittima della mafia ne ‘I cento passi’: quanto conta essere palermitano, nella sua vocazione di attore?
“Sicuramente, mi ha aiutato ad avere una percezione di me e della mia terra molto forte, possedendo una ‘sicilianità’ assai accentuata. Ma non mi sento un privilegiato. Nel caso di quel mio primo film, credo di poter pensare che la grandezza di quel ruolo l’ho avvertita sin dall’inizio, leggendo la sceneggiatura e il libro di Salvo Vitale, ‘Nel cuore dei coralli’, conoscendo la famiglia Impastato, la madre di Peppino, Felicia Bartolotta, il fratello Giovanni e i parenti. Pur essendo nato in una famiglia mafiosa, Peppino Impastato aveva una forte intransigenza morale, fino al punto di sacrificare il proprio privato per dare alla sua terra un degna legalità. E la sua famiglia ha cercato di ridare spessore a quest’uomo, per troppo tempo dimenticato o additato come un suicida e un terrorista, con iniziative di grande levatura morale”.