In questi ultimi giorni, è risultato sconcertante notare come, dopo le dimissioni di Walter Veltroni da segretario nazionale del Partito democratico, abbiano imperversato, sui nostri principali organi di informazione, innumerevoli considerazioni - alcune parzialmente valide, altre totalmente deliranti – intorno al ruolo del Pd: quello cioè di rappresentare il nucleo di un futuro grande partito riformista italiano. C’è solo un particolare che continua a sfuggire a tutti quanti: il Pd non è mai stato un partito riformista, né potrà mai esserlo. Sulla base di una simile considerazione, tutto il ‘castello’ di carte venutosi a creare al fine di discutere su cosa fare o non fare, mi è apparso totalmente inutile e, persino, un po’ dannoso. Un partito composto soprattutto da comunisti pentiti e da democristiani dogmatici, tutto può essere fuorché il ‘nocciolo’ di una nuova forza politica autenticamente riformista. Intorno a ciò, rimango severamente fermo nel mio scetticismo, poiché evidenti appaiono sia il ‘furto’ dell’identità stessa del riformismo italiano, realizzato con la colpevole complicità dell’intero sistema dell’informazione italiana, sia la totale inconsistenza di un progetto che rimane miopemente ‘abbarbicato’ al moralismo giustizialista come unica vera ‘zattera’ ideologica di salvataggio. Nel Partito democratico, i post - comunisti hanno spasmodicamente bisogno di nuove ‘bussole’ culturali di orientamento. Dunque, mantenendo ferma una certa propensione giacobina verso un’etica di evidente derivazione ‘rousseauiana’, essi alternano, nelle proprie interpretazioni dei fatti politici, una ‘scopiazzatura’ del liberalismo civico dei radicali con la continua riproposizione di un ideologismo estemporaneo dalla forte impronta massimalista. Nel frattempo, sull’altro versante del partito, assai evidente appare la matrice di provenienza di molti ‘comunistelli di sagrestia’, una ‘corrente’ che non discende affatto, come alcuni sostengono, dal vecchio nucleo ‘moroteo’ della Democrazia cristiana, bensì da quello ‘dossettiano’ e ‘fanfaniano’ dei ‘professorini’, dando in ciò pienamente ragione a chi, dal centrodestra, proprio con tali aggettivi li ha da tempo ‘fotografati’. Aldo Moro era un ‘credente in partibus’, un cattolico disposto ad accettare anche evidenze fattuali totalmente opposte alla propria fede e ai suoi convincimenti. I cattolici del Pd, invece, fanno pieno riferimento a quel classico pedagogismo confessionale distante migliaia di miglia da ogni vera forma di progressismo civile. Sintetizzando molto, i post - comunisti del Pd sono in preda alla confusione più totale, mentre la rimanente ‘ala popolare’ del partito appare solamente un mero nucleo di allegri conservatori colti in flagrante ‘adulterio’. Come possa giungere a delle autentiche sintesi politiche riformiste un partito di siffatto genere e tipo non rappresenta affatto il problema di fondo della questione, quanto la vera e propria follia di un bipartitismo burocraticamente calato dall’alto, nella più finta e ‘borghese’ delle metodologie. Se ad un simile ‘pastrocchio’ affianchiamo inoltre la presenza di un movimento come quello guidato dall’On. Di Pietro, ecco che la sentenza di morte per l’intero mondo progressista italiano diviene definitiva e inappellabile. Passando poi ad analizzare anche l’altra ‘parrocchia’ del nostro panorama politico, ovvero quella del centrodestra, si approda invece ad una serie di conclusioni dotate di un maggior grado di coerenza, pur nella ‘mostruosità’ complessiva di ciò che effettivamente risulta essere il cosiddetto Popolo delle Libertà: un coacervo di forze raccapriccianti, di esponenti totalmente omologati ad un conformismo di massa che sbanda ipocritamente tra un misticismo autoritario e un utilitarismo opportunistico a dir poco miserevole. Nel Pdl qualcosa è ‘salvabile’, per la verità: l’intelligenza di Giulio Tremonti, la caparbietà di Claudio Scajola, il lodevolissimo tentativo del presidente della Camera, Gianfranco Fini, di voler coniugare forme di laicità e di liberalità con una morale religiosa non dogmatica. In ogni caso, pur mettendo a fuoco tali valenze politiche dalla natura pressoché individuale, anche nel centrodestra italiano latita, con netta evidenza, ogni capacità di approcciare i problemi del Paese con autentico spirito di modernità e senso di concretezza: chi ‘vale’ qualcosa serve solamente a ‘salvare la baracca’ dalle continue derive qualunquistiche, dagli immobilismi imbarazzanti, dalle ‘ragnatele’ populiste più inquietanti. Tutto ciò compone un quadro generale devastante e devastato, in cui gli italiani non sanno più veramente a quale ‘santo’ votarsi. Sarebbe dunque il caso che molti nostri esponenti politici cominciassero a trovare il coraggio di occuparsi di qualcos’altro, anche al fine di dimostrare di non essere delle persone aride, totalmente corrotte dal proprio desiderio di potere. Un coraggio che Walter Veltroni alla fine ha saputo dimostrare. E di cui non possiamo far altro che rendergliene merito.