Route El Fawara – Hammamet (“Strada della Fonte – Hammamet”, l’ultimo indirizzo di residenza di Bettino Craxi) di
Bobo Craxi e Gianni Pennacchi edito dalla casa editrice
Sellerio di Palermo, non rappresenta il frutto di una retorica nostalgia per
l’opulenza socio-economica degli anni ‘80: è il libro di un figlio che parla di suo padre, che si distacca volutamente dal freddo tavolo dell’analisi per raccontare
gli anni dell’esilio del leader del Psi, Bettino Craxi, su un piano prioritariamente umano e familiare. Personalmente, ho un ricordo indelebile del periodo in cui venne pubblicata la prima edizione di questo lavoro:
Gianni Pennacchi, editorialista de
‘Il Giornale’ e coautore dell’opera, si precipitò da me in ufficio per chiedermi di trarre dalla primissima copia licenziata dalle tipografie una serie di
‘pillole’ per uno
’speciale’ da pubblicare sul quotidiano
‘Libero’ dal titolo:
Il ‘craxismo’ dalla ‘A’ alla ‘Z’. Pennacchi, dunque, mi costrinse a leggere
Route El Fawara – Hammamet in una sola notte, poiché
Vittorio Feltri richiedeva il tutto
entro 48 ore. Il
miracolo ci riuscì abbastanza bene, devo dire, tanto che
‘Libero’ dedicò poi a quel servizio una pagina intera. Ma l’esperienza mi servì soprattutto per dedurre
la vera essenza di questo libro.
Attraverso una lunga e approfondita intervista, infatti, il figlio di Bettino Craxi,
Bobo, racconta gli anni più difficili dell’ultimo vero leader della sinistra italiana, allontanandosi decisamente dal facile
piagnisteo rivendicativo, al fine di evitare ogni genere di strumentalizzazione e riporre la figura del padre in un alveo di umanità, di semplicità popolare. E’ un libro importante
Route El Fawara – Hammamet, per contestualizzare con serietà
la questione, ancora apertissima, del tramonto politico di Bettino Craxi e per riflettere sul destino di un leader costretto a
morire al di fuori del proprio Paese per difendere la sua libertà personale. Sotto quest’ottica, ogni problema relativo alla questione della
corruzione politica in Italia passa in secondo piano. Anzi, l'opera pone questioni che
scagionano Bettino Craxi sollevando riflessioni non sui grandi meriti del leader, conosciuti e ampiamente decantati, ma sugli
errori, sulle
ingenuità commesse nella gestione del suo partito.
Bettino Craxi ancora oggi viene accusato di aver avuto una
‘responsabilità oggettiva’ nel quadro complessivo del sistema di
finanziamento illecito dei partiti degli anni ’80 e ’90. Più volte, nel corso di quel
cataclisma giudiziario denominato
‘Tantentopoli’, abbiamo letto o sentito parlare di lui come di un
‘criminale matricolato’. Ma nel libro di Bobo Craxi e Gianni Pennacchi si scopre, invece,
un Craxi assolutamente indifferente al fascino del denaro, nonché personalmente assai lontano da quei giudizi di
‘epicureismo edonistico’ scagliati addosso al suo partito come un sigillo indelebile dall’intellighentia intellettuale italiana. Di riflesso, invece, si comprende che
furono ‘altri’ a ‘fare’, ‘altri’ ad ‘approfittare’ (spesso a scopo di lucro personale, nemmeno in favore del partito). Bobo Craxi e Gianni Pennacchi non entrano direttamente negli aspetti politico-giudiziari, che volutamente vengono lasciati sullo sfondo, bensì
lasciano il lettore libero di pensare e di giudicare, senza pretese riabilitative. Il
mosaico storico si compone, alla fine,
per proprio conto e ci si chiede se un
giustizialismo moralistico e pregiudiziale non abbia
abbacinato molti di noi impedendoci di capire veramente
come siano andate molte cose: ce la siamo presa
con la politica, senza chiederci quali fossero
i suoi costi e le sue funzioni; ci siamo
indignati con partiti e personaggi politici tralasciando di domandarci se molte delle responsabilità di quanto era successo non fossero, anche o soprattutto, di un
ceto affaristico ed imprenditoriale italiano che senza l’aiuto della politica e dello Stato,
non ha il coraggio di proporre un investimento nemmeno per impiantare una fabbrica di imbottigliamento di pomodori. Route El Fawara, in conclusione, solleva la distinzione più importante e forse più amara: abbiamo
criminalizzato la politica e le abbiamo addossato tutte le colpe,
ma con che cosa la abbiamo sostituita? Siamo proprio sicuri che, dopo il ciclone giudiziario degli anni '90, le cose abbiano cominciato ad andare
meglio, in Italia?
Dubitiamo, amici. Dubitiamo.