E’ da prima del cosiddetto ‘schiaffo storico’ inscenato al World Economic Forum di Davos, il 29 gennaio scorso, sotto i flash dei fotografi di mezzo mondo, che al premier turco Recep Tayyip Erdogan era saltata la ‘mosca’ al ‘naso’. Da quando, cioè, il governo israeliano, con l’operazione ‘piombo fuso’ nella striscia di Gaza, aveva ridotto in briciole un lungo lavorio diplomatico che stava per essere portato a termine dalla Turchia per cercare di riaprire, dopo il blocco nel 2000, il dialogo diretto fra Israele e Siria. Una via d’uscita, riguardante il ritiro israeliano dalle alture del Golan, occupate dal 1967, che se fosse stata imboccata grazie alla Turchia nel ruolo di mediatore, avrebbe potuto produrre un confronto anche sui legami fra Siria e Hezbollah, l’Iran e i palestinesi di Hamas. Erdogan ha dichiarato a Davos che “l’accordo Israele e Siria era a portata di mano”. Non solo. Ha aggiunto che “bastavano poche parole”. La scenata di Davos, tuttavia, fa sospettare che Erdogan sia in cerca di consensi a fini propagandistici. Descritto come il ‘tetragono’, tanto per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti sulla sua indole, non ci si deve fare depistare circa la sua partecipata difesa dei diritti umani dei palestinesi. Se è vero che il premier turco, condannando apertamente Israele per le azioni perpetrate durante l’operazione ‘piombo fuso’ e per aver ignorato la Risoluzione Onu dell’8 gennaio, ha suscitato enormi consensi in tutto il mondo arabo e persiano, il motivo principale della sua presa di posizione contro Israele (che poi è la stessa condanna fatta ai tempi dell’attacco israeliano del 2006 in Libano) va piuttosto attribuito alla vanificazione di un capolavoro diplomatico che stava per compiersi in una manciata di settimane e che adesso si è nuovamente arenato nelle secche di una situazione cristallizzata, la quale non potrà che produrre altre metastasi. Così si spiega lo ‘schiaffo storico’ di Davos, che ha visto Erdogan abbandonare seccamente il Forum tenutosi in Svizzera per non essergli stata concessa la possibilità di replicare (questo il pretesto accampato) al presidente israeliano Shimon Peres durante la sessione sul Medio Oriente. Acclamato come un re da migliaia di suoi connazionali al suo arrivo all’aeroporto Atatürk di Istanbul, il rientro in patria del premier turco, a notte fonda, si è snodato lungo un percorso zeppo di folla sventolante bandiere turche e palestinesi. Erdogan è rincasato, quindi, nella sua residenza su un ‘tappeto’ di garofani rossi: ottima la regia, bella la scenografia. Sul confronto diretto israelo – siriano, ormai passato ‘in cavalleria’, Erdogan ha anche rivelato un retroscena sul primo ministro israeliano Ehud Olmert: “Quattro giorni prima dell’attacco contro la Striscia di Gaza”, ha detto il ‘tetragono’, “Olmert era in Turchia per discutere delle trattative con la Siria. Abbiamo parlato ininterrottamente per sette ore, mentre io ero in continuo collegamento telefonico con il presidente siriano, Bashar al Asad. Ma invece di seguire la via della pace, Israele ha preferito la via della guerra. E pensare che era possibile risolvere anche la questione di Gilad Shalit” (il giovane soldato della Galilea catturato al confine con Gaza nel 2006 e tenuto tuttora in ostaggio da Hamas, ndr). Con le coup de théâtre di Davos, Erdogan ha dunque risolto un suo problemino personale. I sondaggi degli ultimi tempi indicavano in discreta flessione sia la sua popolarità, sia il suo partito islamico moderato Akp (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo). E le prossime elezioni amministrative del 29 marzo, per il rinnovo di sindaci e consiglieri comunali e provinciali nella maggior parte del Paese, saranno un vero e proprio test. Ora, però, Erdogan può sentirsi in una ‘botte di ferro’ e passare ad altro. Non c’è alcun motivo per ritenere che la storica alleanza israelo - turca venga intaccata dalla più recente presa di posizione di Erdogan. Oltre all’importanza militare della Turchia, ‘stella’ di prima grandezza sia a livello interno, sia per il suo posto nella Nato (in Turchia ha sede anche l’Ici, Istanbul Cooperation Initiative, un Trattato di sicurezza regionale nell’ambito del Dialogo Mediterraneo), Turchia ed Israele sono gemellate da un unico destino che le vede tutte e due impegnate a fronteggiare questioni molto simili: da una parte Israele, con il problema palestinese e del movimento integralista di Hamas e le altre ‘falangi’ terroristiche associate; dall’altra, la Turchia, che soprattutto in passato ha vissuto un problema analogo con il Pkk di Abdullah Ocalan. La Turchia, inoltre, ha tutto l’interesse a sostenere Israele anche per contrastare negli Stati Uniti, attraverso il ‘pressing’ della comunità israeliana, la lobby armena, che cerca di sbarrare molte porte alla Turchia, fra cui quella di accreditarsi come grande nazione islamica moderata e riuscire ad entrare nell’Unione europea.