Dopo la vittoria del Popolo delle Libertà alle elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008 pensai che, nel giro di un breve volgere di tempo, sarebbero aumentate le mie simpatie per il Partito democratico e, viceversa, le mie antipatie verso il nuovo Governo. Ciò non discendeva da un pregiudizio: per principio, ho la ‘tendenza’ a mettermi dalla parte di coloro che si ritrovano all’opposizione o, addirittura, in forte minoranza. Invece, dopo questi primi 8 mesi di Berlusconi ‘quater’, mentre è rimasta sostanzialmente immutata la mia generica disistima nei confronti dell’esecutivo in carica, è vieppiù cresciuto il mio personale sconcerto nei confronti del Partito democratico. Ritenendo impensabile di dover dar ragione all’agghiacciante giustizialismo protestatario dell’Italia dei valori, la formazione politica di stampo personalistico guidata dall’On. Di Pietro, mi sono dunque mantenuto sulle posizioni dei miei cari amici socialisti Riccardo Nencini e Bobo Craxi, volgendo qualche sguardo di attenzione verso alcuni ambienti laici del centrodestra, come quelli del Pri di Francesco Nucara e del Nuovo Psi di Stefano Caldoro, in attesa di nuove evoluzioni e sviluppi da parte del ‘pianeta’ Pd. Evoluzioni che, purtroppo, si sono invece tradotte in vere e proprie involuzioni: concezioni vaghe, propositi balbettanti, scarsissima progettualità politica, massimalismi astratti e, alle volte, anche un po’ grossolani, un evidente analfabetismo nei confronti di ogni genere e tipo di gradualismo politico riformista. Il riformismo, in effetti, per la maggioranza degli italiani rappresenta uno di quei termini politici ‘vuoti’ e misteriosi che costringono coloro che, come il sottoscritto, tentano di spiegare alcuni contenuti della politica alla gente comune ad immani sforzi di ripetitività e ad un certo grado di fossilizzazione degli argomenti da trattare. Fortunatamente, sono penetrati, almeno un poco, i termini ‘laico’ e ‘laicità’, nel nostro linguaggio comune di tutti i giorni. Ma ciò è avvenuto quasi dopo un quindicennio di sforzi allucinanti da parte di quel poco che è rimasto degli ambienti più ‘equidistanti’ dell’informazione italiana. Ora si pone perciò la questione di spiegare agli italiani cosa significhi, cosa rappresenti e cosa in effetti sia il riformismo, con tutte le sue distinte ramificazioni. Poiché esistono almeno tre tipologie di riformismo: a) quello ‘massimalistico’, derivante da antagonismi fortemente radicali tra le diverse forze politiche; b) quello ‘peggiorativo’, ovvero tendente a guardare con indulgenza determinate distorsioni delle normali procedure ‘di sistema’ sulla base di una vecchia scuola giuridica di matrice consuetudinaria, che pretenderebbe di rendere forme, atteggiamenti e convenzioni, anche quelle più odiose e negative, delle vere e proprie fonti di diritto; c) infine, vi è il riformismo ‘propriamente detto’, cioè quel tipo di gradualismo politico che, partendo da specifiche basi dottrinarie del nostro ordinamento, cerca di introdurre nuovi strumenti normativi di gestione della cosa pubblica. Proponendo alcuni esempi chiarificatori, il riformismo massimalistico, che molti italiani in effetti possiedono nel proprio patrimonio ‘genetico – culturale’, può forse venir spiegato come quel genere di politica fortemente ‘pattizia’ o ‘contrattualistica’ che prima di giungere ad un compromesso effettivamente praticabile tra due o più parti, tende a far esplodere tutte le contraddizioni fornite dal contesto, come nelle tumultuose riunioni di condominio genialmente descritte da Paolo Villaggio nel suo ‘Fantozzi’, un capolavoro assoluto della letteratura italiana contemporanea. Il riformismo ‘peggiorativo’ è invece sintetizzabile concettualmente attraverso l’esempio della proliferazione degli autovelox sulle nostre strade statali, che tendono a trasformare un provvedimento che si vorrebbe sanzionatorio in una fonte di guadagno per enti locali e piccoli comuni, erigendo a ‘modello’ forme di vessazione nei confronti di pendolari e cittadini. Venendo invece al riformismo propriamente detto, esso è quell’opera di ‘correzione normativa’ di disfunzioni, ingiustizie e lacune sociali che, se non predisposta per tempo, tende a dividere la società su fronti contrapposti, rischiando di trasformare ogni riflessione pubblica in un gigantesco ‘duello’ di massa. Ora, la nostra classe politica attuale non conosce praticamente nulla di quest’ultimo genere di riformismo. Ed è per tale motivo che ogni trasformazione economica e sociale del nostro Paese non avviene, come intelligentemente diagnosticato alcuni anni fa proprio dall’On. Massimo D’Alema, in condizioni di ‘normalità’, ma quasi sempre in seguito ad immani ‘travagli’, che rendono ogni decisione frutto di eccezionalità o dettata da condizioni di assoluta emergenza. A causa di un simile ‘analfabetismo’, il nostro ceto politico da sempre tende a perdersi in polemiche e diatribe tese a mutare di pochissimo ogni questione che si vorrebbe affrontare, generando altresì micidiali dibattiti in ambienti associativi e culturali generalmente ‘prezzolati’, accidiosi e inconcludenti. Un po’ come quel tale che, invece di salvare un suicida convincendolo a non commettere l’insano gesto, decide di dargli una spinta per poi poter raccontare l’accaduto secondo l’interpretazione che più gli torna comoda. Non di rado capita, in particolar modo tra i partiti del centrodestra, che alcuni argomenti particolarmente controversi vengano addirittura trasferiti in precisi ambiti della propria militanza, al fine di rimodulare la posizione politica del partito sulla base dei risultati emersi dalla discussione interna. La qual cosa si traduce col vecchio adagio: “Vi guiderò ovunque voi vogliate andare”, cioè l’esatto contrario di una forma di leadership politicamente stabile e lungimirante. Di converso, nel Partito democratico forte appare l’impronta burocratico – massimalistica della linea politica genericamente espressa. Il Pd, infatti, nasce dalla ‘fusione a freddo’ di due nomenclature uguali ed opposte: quella post comunista, che per propria natura ha il problema di una totale mancanza di ogni qualsivoglia bussola di orientamento liberaldemocratico e che, dunque, tende ad affidarsi al consueto movimentismo ideologico di mobilitazione ‘protestataria’ della militanza, con quella non meno burocratica e vieppiù fortemente ‘sclerotizzata’, discendente diretta dell’antica sinistra democristiana. Per farla breve: una ‘giraffa’ innestata sopra al corpo di una ‘balena’, una sorta di strano ‘mostro spaziale’ che, invece di invadere il pianeta Terra al fine di sfidare il robot Goldrake, difensore dell’umanità, finisce col prendersi a ‘cazzotti’ da solo. Se non si trattasse di un’autentica tragedia, quella della sinistra italiana, ci sarebbe da sbellicarsi dalle risate. Il vero riformismo - è bene che gli italiani lo sappiano - può essere solamente quello socialista ‘mescolato’ con quello liberaldemocratico. Anche perché esso, in Italia, è nato esattamente così, cioè come una tendenza gradualista teorizzata da Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Leonida Bissolati imperniata sull’opportunità di sostenere, tramite ‘appoggio esterno’, dei governi di orientamento liberaldemocratico, al fine di porli nelle condizioni di attuare vaste riforme economiche e sociali. La tesi di fondo del riformismo è che il socialismo possa nascere solamente in una società a capitalismo fortemente avanzato, in cui le capacità produttive del Paese abbiano raggiunto livelli altissimi in quanto frutto della volontà cosciente della popolazione. Il che non si traduce nel classico schematismo ‘contrattualistico – sindacale’ in cui la maestranza operaia viene costretta ad accordarsi a tutti i costi con i detentori dei mezzi di produzione, ma come uno sforzo di completamento del ciclo storico del capitalismo preso nel suo complesso, teso a preparare una nuova classe dirigente in grado di guidare la società per liberarla da ogni forma di sfruttamento e di asservimento dell’uomo sull’uomo. Fu proprio intorno a tali concetti che nacque la critica riformista al comunismo, il quale ha sempre teorizzato la ‘forzatura’ delle ‘maturazioni naturali’ di quelle condizioni necessarie all’avvento di una società socialista attraverso il potere totalitario di avanguardie di minoranza su società ancora arretrate: una ‘scorciatoia’ che ha sempre negato i valori più umanistici e libertari del socialismo stesso. Bene: la spiegazione ‘dottrinaria’ del riformismo ‘propriamente detto’ a grandi linee è questa qui. Ma la questione che, a questo punto, deve essere affrontata diviene la seguente: è in grado Walter Veltroni di iniziare a ‘declinare’ il ‘verbo’ dei Turati, dei Bissolati e dei fratelli Rosselli, ovvero delle principali ispirazioni politiche e culturali di Bettino Craxi e del socialismo autonomista? La risposta ad un simile quesito non può che essere negativa: demonizzando il ‘craxismo’ e dando il proprio contributo all’annientamento del Psi, la sinistra post comunista ha avallato la creazione di un vuoto politico assai più profondo del danno quantitativo o meramente ‘numerico – elettorale’ calcolato di per sé, poiché oggi non può più limitarsi a teorizzare la costruzione di una futura ‘casa comune’ di tutti i riformisti e si ritrova costretta a calarsi in un ‘crepaccio’ che essa stessa ha contribuito, quasi ‘geologicamente’, a generare. Rinnegare Bettino Craxi e la tradizione socialista ha significato risalire a Crispi senza neanche passare per Giolitti: è bene che gli amici del Partito democratico se ne rendano conto al più presto, perché questo è il vero nodo da sciogliere. Altri, non ve ne sono.