Ci troviamo di fronte al rischio di una probabile e pericolosa
escalation della conflittualità, tanto in Iraq, quanto in Medioriente e nel nostro continente, già oggetto di gravissimi attentati terroristici. L’ultima cosa da fare è perciò quella di
sottrarsi alle responsabilità o di affrontarle passivamente, senza agire. Dobbiamo dire ad alta voce, anche in virtù delle posizioni assunte dal nostro governo,
qual è il pensiero dell’Italia nei confronti degli alleati americani. Senza una politica efficace, condivisa più che dalla maggioranza delle opinioni pubbliche europee, da quella del popolo iracheno,
possiamo solo prepararci al peggio.
La stabilizzazione e la ricostruzione democratica dell’Iraq può avvenire quanto più è
larga e convincente l’opera di sostegno della presenza occidentale, che non può più essere rappresentata solamente dalla
coalizione dei volenterosi. Vi sono impegni su cui la comunità internazionale e le forti democrazie occidentali hanno assunto forti responsabilità, su questioni che
non hanno fatto passi avanti, in nessuna direzione.
Gli errori commessi sono
sotto gli occhi di tutti, a partire dal ritardo e dalle inadempienze con cui si è affrontata la questione palestinese. E l’impegno del nostro Paese,
lo stesso prolungamento della sua presenza in Mesopotamia ha senso solo se in prospettiva, ma iniziando da subito, vi sarà la forza di
rompere questo stato di cose, riproponendo una politica di
intervento realmente efficace per la stabilizzazione dell’area, condivisibile ed apprezzabile dalle parti: rilanciando, insomma, la capacità di
un’azione multilaterale.
Vi sono argomenti forti, che devono essere sostenuti con energia, sollecitando l’amministrazione americana
affrontandola a testa alta, ragionando da ‘pari in gioco’ intorno ad un futuro finalmente pacificato del mondo in cui viviamo. Non può più risultare sufficiente l’azione di contrasto militare. Non lo è più se non prevalgono
le ragioni per le quali era stato deciso.
Senza un immediato cambio di strategia politica, ci si può solo preparare al peggio che, invece, io credo debba essere scongiurato. L’undici settembre e la lotta al terrorismo internazionale hanno promosso una grande e duratura solidarietà fra i popoli occidentali, la quale, tuttavia, ha poi finito col
lacerarsi non su principi o intorno ad obiettivi di fondo, bensì sugli
approcci politici e strategici che dovrebbero rappresentare un
vincolo di unità per quelle nazioni che hanno sconfitto, in passato,
l’impero del “socialismo reale”.
Il pericolo comunista, infatti, è stato sconfitto, sotto la guida degli Stati Uniti d’America,
non soltanto attraverso la deterrenza strategica delle armi, ma con lo strumento della
dissuasione politica ed economica rivolta, innanzitutto, verso quei Paesi del Terzo Mondo fortemente richiamati dal fascino della ‘rivoluzione rossa’ e attraverso
la correzione di squilibri tipici del sistema capitalistico.
Lo hanno saputo fare, innanzitutto, molte amministrazioni americane, ma anche quei governi europei – quelli
a guida socialdemocratica in particolare -, che hanno saputo svolgere un ruolo essenziale con l’assunzione di
decisioni impegnative e determinanti.
Oggi, il nuovo nemico è quello del
terrorismo internazionale. E ritengo un errore perseguire determinati obiettivi di pace e di sviluppo delle aree più delicate del pianeta ricorrendo
soltanto allo strumento della forza, tanto più se i ricorsi ai conflitti militari
non poggiano su sostegni ampi, condivisi dell’intera comunità internazionale.
Non si tratta dunque di constatare l’ovvio:
gli Stati Uniti d’America rappresentano, indubbiamente, un fattore di modernità, di dinamismo economico, oltre che di potenza militare, tecnologica e di limpida impostazione democratica, di freschezza e di vitalità opposta alla sindrome da invecchiamento culturale e alle divisioni del mondo europeo.
Ma proprio l’evidente
debolezza politica dell’Unione europea dovrebbe generare
un’accelerazione di quei processi di riequilibrio economico del pianeta, in grado di evitare che, in futuro, si determinino pericolose lacerazioni,
che indeboliscono solidarietà acquisite, producendo ulteriori divisioni.
In base a simili motivazioni,
io non ho mai aderito all’idea della effettiva legittimità giuridica della cosiddetta “guerra preventiva”, interpretando, credo, quella che ritengo
la tradizionale posizione del socialismo riformista italiano, che ha sempre considerato l’uso della forza solo come
estrema ratio, autorizzabile e legittimabile soltanto
dall’ombrello delle organizzazioni internazionali di cui fa parte anche l’Italia.
L’Unione europea deve cominciare ad
insistere con maggior decisione sulla ripresa del negoziato fra palestinesi ed israeliani, proprio perché è intollerabile
una politica del doppio standard, dei due pesi e delle due misure in Medio Oriente e non è comprensibile, né pensabile, che la popolazione araba possa
tollerare oltre le sofferenze del popolo palestinese.
Credo dunque necessario
perseguire questa strada, poiché ritengo assai importante che
l’Europa insista, sotto il profilo della politica internazionale, nel pretendere un maggior peso politico
unitario, da porre solennemente sul tavolo delle questioni che riguardano l’intero pianeta.
Una politica estera comune per tutti i Paesi che compongono l’Ue, non può limitarsi ad una
continua constatazione delle sue debolezze, ma sviluppare
una più utile riflessione sulla crisi politica verso cui potrebbe essere avviato il movimento terroristico internazionale e le diverse forme di integralismo politico, ideologico e religioso.
Disporre di un
ruolo internazionale unitario dell’Unione europea, renderebbe lo scacchiere attuale maggiormente
controllabile, e potrebbe significare
lo sviluppo di nuovi e più intensi rapporti economici che potrebbero far accrescere il peso e la funzionalità di Paesi come
la Spagna, l’Italia, la Grecia e la Turchia, ma anche della Tunisia, del Marocco, e dell’Egitto.
Ciò non significa, in termini geopolitici, un ritorno alle origini storiche di
un’impostazione euromediterranea del mondo. Se le scoperte geografiche dell’epoca moderna hanno fatto sì che l’umanità rivolgesse il proprio sguardo
al di là delle antiche ‘colonne d’Ercole’, è anche giusto, a mio parere, cercare di
comprendere se è percorribile, in epoca contemporanea, una nuova estensione di un pacifico sviluppo del dialogo, nelle relazioni internazional,i verso oriente, non per
occidentalizzarlo forzosamente, ma per
aprirci culturalmente ad un rapporto
più autentico e scevro da pregiudizi con la civiltà islamica.
Se l’Islam si irrigidisce sino ad
arroccarsi sulle sue ali più fondamentaliste, ciò non rappresenta una sua
forma di irriducibilità, bensì una paura. E per quale motivo il mondo islamico
vive questa paura nei confronti del mondo occidentale? E in base a quali motivazioni il mondo occidentale vive oggi una fase di
irrigidimento politico nei confronti del mondo arabo?
Qualcuno, di recente, ha scritto che
non esiste un Islam buono ed uno cattivo: esiste l’Islam nel suo complesso. Può anche darsi che sia così. Ma
porre il mondo occidentale su un crinale di scontro frontale o anche solo di forte contrapposizione con il mondo islamico, potrebbe risultare, da un punto di vista squisitamente tattico,
un grave errore. Non riesco infatti a comprendere
il profilo di prospettiva di un simile 'muro contro muro': l’impressione è quella di una presa di posizione che
cozza fortemente con un utilizzo accorto ma coraggioso della politica diplomatica internazionale. E’ un
indirizzo cieco, quello che ci viene imposto sin dall’11 settembre del 2001,
fatto di rabbia, di orgoglio, di dolore, atteggiamenti umanamente comprensibili, ma
ben lontani da un’impostazione razionalista dei problemi sollecitati dal mondo islamico. Che sono poi
i problemi della cooperazione e della coesistenza di tutti gli esseri umani del pianeta. La
demonizzazione dell’Islam, insomma, non risolve il vero problema della società globalizzata del terzo millennio:
quale tipo di equilibrio internazionale può invece fornire
risposte moderne alla domanda di uno sviluppo globale pacificato,
compatibile con le culture originarie dei singoli Paesi e delle rispettive regioni del pianeta?
Parlamentare e Vicesegretario Nazionale del Nuovo Psi