Maria Chiara D'Apote

La serie tv: 'Monsters: la storia di Lyle ed Erik Menende', prodotta da Netflix, si basa un fatto di cronaca nera che ha sconvolto l’America negli anni ‘90 del secolo scorso. Questo secondo capitolo del ciclo antologico realizzato da Ryan Murphy e Iann Brennan (creatori di serie televisive ultrapopolari, da 'Glee' ad 'American Horror Story' e 'American Crime Story', ndr) è articolata in 10 episodi della durata media di 50 minuti ciascuno. 'Monsters: la storia di Lyle ed Erik Menende' è dunque il sequel della celebre serie televisiva 'Menendez: la storia di Jeffrey Dahmer', miniserie sul serial killer, Jeffrey Dahmer. Siamo negli Stati Uniti del 1989: i fratelli Lyle ed Erik Menendez vengono accusati del duplice omicidio dei genitori, Kitty Andersen e José Enrique Menendez, trovati morti nel salotto di casa loro, a Beverly Hills. Inizialmente, le indagini si erano concentrate su possibili nemici del padre, José, che era diventato molto ricco grazie ai favori della mafia locale, ma le indagini portano all’arresto di Lyle ed Erik, accusati di aver ucciso i genitori per ereditare il patrimonio paterno. I due fratelli subiscono un primo processo - uno dei primi in diretta televisiva - nel 1994, ma questo finisce senza verdetto. La giuria, infatti, è divisa a metà: chi crede alle violenze del padre (le donne, ndr) e chi no (gli uomini, ndr). Il secondo processo, blindato dal giudice, con l’esclusione delle testimonianze della famiglia e degli abusi, si chiude nel 1996, con la sentenza di ergastolo senza condizionale.

Svelamenti durante l’arco degli episodi
L’andamento filmico coinvolge progressivamente lo spettatore, passando dalle 'sequenze-incipit', che inchiodano come assassini i due fratelli, Lyle Menendez (un ispiratissimo Nicholas Chavez) ed Erik (un intensissimo e travagliato Kooper Koch). Il 'plot' è avvincente, perché di episodio in episodio, svela verità inconfessabili, attraverso una rete ben congegnata di sottotrame. È proprio in questro incrocio narrativo che si snoda il racconto di Erik dallo psicologo Judalon Smyth (Leslie Abramson). Il fragile Erik non sopporta più il peso del suo antico segreto e tradisce il fratello complice, Lyle.

Senza pregiudizio
La narrazione, bene articolata, fluida, intensa, tende lo spettatore ad 'abbracciare' i dolorosissimi vissuti che hanno 'spinto' i due fratelli a compiere il gesto estremo.

Bene e male, ma non per futili motivi

I resoconti dei ragazzi, accusati di omicidio, fanno passare la verità attraverso punti di vista diversi: Lyle ed Erik sono stati (a loro dire) abusati fin da piccoli, in modo orrendo, dal padre, Josè Menendez (un bravissimo e 'mefitico', Javier Bardem, ndr), con il 'silenzio-assenso' della madre, Kitty Menendez (la talentuosa Chloë Sevigny, ndr).

La sequenza-rivelazione degli abusi
Durante tutto il 'monologo-rivelazione' di Erik, l’avvocato della difesa, Leslie Abramson (Ari Graynor) viene ripresa dalla macchina in controcampo, di spalle: un 'long-take' di quasi 35 minuti fatto di movimenti minimali, che passano dall’inquadratura media al primissimo piano di Erik, singhiozzante.

La sceneggiatura e molto altro
La sceneggiatura si articola molto bene in dialoghi credibili: il 'copione' ricostruisce la scena del delitto e fa tornare lo spettatore indietro, al punto di partenza, carico di informazioni nuove. Le brillanti interpretazioni degli attori, da Javier Bardem a Chloë Sevigny, da Nicholas Alexander Chavez a Cooper Koch (pur essendo, quest’ultimi, due modelli prestati alla recitazione) la ricostruzione degli ambienti di fine anni '80, l’organicità della fotografia (con colori molto caldi e immagini sature, che rimandano al girato in pellicola più che al digitale) impreziosiscono questo film tv, davvero ben girato.


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