Giovanna Albi“Ci sono persone che fanno di tutto per essere ricordate. Altre, invece, desiderano soltanto l’oblio”. Di questa seconda categoria fa parte Matteo Di Girolamo, noto architetto milanese che sparisce nel nulla come Mattia Pascal. Le sue tracce scompaiono nella notte dei tempi fino a quando, trent’anni dopo, una telefonata dei Frati Minori di Acireale raggiunge il figlio più grande, Fabio, invitandolo a recarsi presso il convento, perché hanno informazioni importanti riguardanti il padre. L’ottava fatica letteraria di Raffaele Mangano, direttore artistico del Premio Brancati, sta riscuotendo grande successo di pubblico e di critica, giungendo alla meritata ristampa per i tipi della Fausto Lupetti Editore, collana Amatea, perché ha saputo toccare, con garbo e finezza di indagine psicologica, un tema sempre attuale, che risale sino a Telemaco alla ricerca di Odisseo: la relazione padre/figlio. E’ possibile l’oblio dei rapporti che abbiamo costruito e sui quali ci siamo costruiti? Questo è l’interrogativo che attraversa l’intera opera, strutturandola sul senso di colpa che imprigiona il protagonista, Fabio e il coprotagonista, Matteo, che pur non appare mai sulla scena. La colpa dei padri ricade sui figli: questo ci insegna la nemesi storica dei Greci. Ora, per quanto Fabio sia un avvocato affermato, con una relazione sentimentale solida con Eliana e proceda nella vita come un treno in corsa, non può aver cancellato il sentimento di abbandono che lo ha segnato da piccolo, benché sprofondato nei recessi dell’Io. Parimenti, il padre, rifugiatosi nel monastero di Acireale senza nessuna tensione spirituale, non ha rimosso la percezione netta della sua responsabilità nei confronti della famiglia, che ha abbandonato, con il conseguente senso di colpa. Calzante, dunque, il titolo, che lega la relazione padre/figlio in un sentimento biunivoco. E’ proprio il caso di dire che è il passato, il vero protagonista di questo intenso e profondo romanzo psicologico, che ritorna come ‘rimosso/rimorso’ fin tanto che non avviene la catarsi, attraverso la pacificazione e il perdono. Una cosa è il ricordo che va sublimato, spostato, sezionato, diviso, finanche gettato (se mai sia possibile); altra cosa è la memoria di cui, come esseri strutturati, non possiamo mancare perché, come ci insegna anche Seneca, la memoria del passato personale e quello della nostra cultura è fondante il nostro presente, mentre il nostro tempo interiore è assolutamente circolare e facciamo quotidianamente esperienza dell’eterno ritorno ‘nietzschiano’. Al tempo in cui Fabio riceve la telefonata fatidica, ha un ricordo sfocatissimo del padre, risalente agli anni remoti della sua infanzia. Ma la memoria, quella sì, ha bisogno di essere colmata. L’autore Mangano rende in modo efficace la destabilizzazione di cui Fabio è vittima: improvvisamente, in una esistenza regolare, entra uno ‘tsunami’ con relativa perdita del punto di equilibrio, sudorazioni, un pensiero che gira vorticosamentre ‘a vuoto’, trasformando in inquietudine quella memoria che chiede ardentemente di essere pacificata. È proprio l’inquietudine, infatti, il vero motore della vicenda, la spinta a conoscere quel padre di cui si aveva un rimando impercepibile, un ricordo obnubilato, segnale di quell’assenza che ha patito da piccolo. La psicoanalisi insegna che noi ci strutturiamo sulle relazioni genitoriali. E, in questo senso, l’opera è un romanzo psicoanalitico che scava dentro il protagonista, spingendolo a cercare nella mancanza. E’ il sentimento di ‘philìa’ che unisce i due protagonisti: il desiderio del padre che tormenta Fabio, trascinandolo nella ricerca come Telemaco, attraverso la voce di chi lo ha conosciuto, fino a ricostruirne un’immagine completamente antitetica rispetto al suo ricordo. Perché platonicamente non esiste una verità, ma le verità. E ognuna di queste collabora a elaborare la memoria di Fabio, soprattutto attraverso la voce della psicoterapeuta, Angela, che lo rende consapevole dell’abisso emotivo nel quale viveva il padre: un uomo con i nervi scoperti e senza pelle.





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