Il 5 dicembre ultimo scorso è stato il ventiduesimo anniversario della scomparsa di Loris Fortuna. Mi imbattei la prima volta in lui in occasione di una riunione del Comitato centrale del Psi, successivo al congresso di Genova del 1972. Avevo vent’anni e la mia decisione di aderire alla corrente autonomista, allora ‘nenniana’, il cui coordinatore nazionale era Bettino Craxi, era in larga parte dovuta alla presenza di Fortuna. Di lui condividevo le battaglie sui diritti civili e la sua vicinanza ai radicali di Marco Pannella, che avevo cominciato a frequentare perché condividevo la volontà di affermare, anche in Italia, un vera cultura laica nel segno degli orientamenti di maestri quali Ernesto Rossi e Capitini. Loris aveva l’anno prima vinto la sua grande battaglia. La sua legge sul divorzio, firmata anche dal liberale Baslini, era stata definitivamente approvata dal Parlamento. Era una vittoria che la Dc, che laicamente aveva accettato la votazione parlamentare senza aprire alcuna crisi del governo Rumor, composto anche dai socialisti, intenderà poi contrastare attraverso il referendum abrogativo, del quale Fanfani, che succederà alla segreteria democristiana ad Arnaldo Forlani, sarà l’alfiere principale. Fortuna era stato l’ultimo socialista ad iniziare questa battaglia di civiltà, rappresentata dalla legge sul divorzio, che consentiva a centinaia di migliaia di italiani di potersi rifare una famiglia e a tante coppie di fatto coatte di trasformarsi in unioni civili riconosciute col matrimonio. Il primo era stato un deputato reggiano nel 1901, Alberto Borciani, sindaco socialista della città, che era stata conquistata dal Psi nel 1899, e che divenne deputato nel collegio di Montecchio con le elezioni del 1900, il quale aveva presentato la prima proposta di legge sul divorzio assieme al socialista parmigiano Agostino Berenini. Per settant’anni questo obiettivo, raggiunto in tutti gli altri Paesi democratici dell’Europa e anche nei Paesi dell’Est, nonché negli Stati uniti, era rimasto lettera morta. La presenza di una chiesa cattolica spesso invadente e di un partito che ad essa, anche se mai dogmaticamente, si rifaceva, aveva reso impossibile conseguire un traguardo di civiltà che ormai il Paese rivendicava a maggioranza. Erano finiti i tempi dei Comitati Gedda e di Gabrio Lombardi, che contestavano, e giustamente, lo stalinismo e il Fronte popolare, con argomenti però tipici dell’integralismo più disarmante, facendo ricorso alle madonne pellegrine. L’Italia era cambiata in quei primi anni settanta, e non solo il Parlamento, dove si riscontrava una maggioranza laica, contrariamente ai nostri tempi, dove diventa impossibile anche solo l’approvazione di un smunta legge sulle coppie di fatto. Fortuna lo comprese e si mise, come tutti i leader che si rispettino, alla guida dell’orientamento del Paese. Quando Fanfani prese la segreteria della Dc, dopo l’esperienza di centro-destra del governo Andreotti-Malagoli, l’ex professorino dossettiano sguainò la scimitarra dell’integralismo cattolico e si svolse quel referendum che il 12 maggido del 1974 segnò il trionfo, oltre le più rosee aspettative, di Loris Fortuna e della sua legge. Fu la prima vittoria liberale dell’Italia, dopo il referendum del 2 giugno del 1946 che vide la vittoria della Repubblica, una vittoria alla quale contribuirono anche i comunisti, che pure già sull’articolo 7 della Costituzione, che aveva recepito i patti lateranensi, e anche sulla difesa della legge Fortuna, avevano assunto atteggiamenti ambigui, quando non apertamente contrari. Per tutte valga il tentativo dell’on. Tullia Carrettoni per evitare il referendum, assolutamente coerente con la strategia di quel partito, già orientata, a partire dal settembre del 1973, al compromesso storico, fondato sul dialogo coi cattolici. Fortuna non si accontentò della legge sul divorzio, ma iniziò anche a promuovere il comitato per la raccolta delle firme, a partire dal 1975, per introdurre una legge sull’aborto, e cominciò a spingere e a suggerire proposte e soluzioni. Se anche la legge sull’aborto è divenuta una realtà in Italia lo dobbiamo a lui, ai radicali e ai liberali non di facciata. Si può dunque affermare che senza Loris Fortuna l’Italia sarebbe meno libera. Senza Loris Fortuna il suo partito, il Psi, sarebbe stato meno giusto. Per questo, e Loris non si occupò solo di queste due leggi così rilevanti per il nostro Paese, ma anche dell’obiezione di coscienza, del diritto ad una morte dignitosa, contro ogni accanimento terapeutico, e di altro ancora, Fortuna va inserito a pieno titolo tra i padri della Patria, una patria liberale, che non impone comportamenti ispirati a fedi religiose, ma leggi che tutte le rispettino nell’affermazione di un principio di tolleranza che è tipico di una cultura liberale e di Paese civile.