Siamo tutti un po’
moralmente responsabili, noi che in modo diverso abbiamo dato un nostro contributo alla nascita e allo sviluppo della
sinistra extraparlamentare negli anni Sessanta e Settanta, degli episodi di sangue che da quel movimento sono scaturiti.
Chi più, chi meno, naturalmente. Ma non credo che possa tirarsi fuori chi si è limitato a
predicare la rivoluzione, per definizione violenta, se poi qualcuno, e per la verità non pochissimi, la predica l’ha presa
sul serio e coerentemente ha poi deciso di passare ai fatti. Personalmente già da tempo mi sono dichiarato
responsabile anche se, per carattere o per viltà, scegliete voi, non ho nemmeno
lanciato una bottiglia Molotov, come ha confessato d’aver fatto addirittura un presidente del Consiglio dei ministri: in compenso, da editore e condirettore del settimanale
La Sinistra, ho pubblicato
nel 1968 le istruzioni per fabbricarla bene, la bottiglia. Ricordo, non senza vergogna, di essermene
vantato nel corso di un colloquio con
Melba Hernández, una dirigente del movimento
castrista che aveva partecipato il 26 luglio del 1953
al mitico e tragico attacco alla Caserma Moncada. Ne ricevetti un rimprovero:
“Con la rivoluzione non si gioca”, mi disse. “Si fa o non si fa”.
Noi con la rivoluzione abbiamo invece
giocato. Siamo responsabili perché irresponsabilmente non abbiamo messo in conto che, a causa di quel gioco, qualcuno ci avrebbe
rimesso le penne. O la vita, come nel caso del commissario
Luigi Calabresi. A più di trent’anni di distanza ricordo come fosse ieri lo smarrimento nel leggere
Lotta continua che annunciava:
“Giustizia è fatta!”, quando per nulla ero stato turbato da un anno di campagna giornalistica che quell’evento aveva
promesso. Anzi, avendo pubblicato
La strage di Stato, un libretto di straordinario successo che tutti i gruppi dell’estrema, su tante cose divisi tra loro, avevano contribuito a diffondere,
ero anch’io tra i mandanti morale di quell’assassinio: quel libro conteneva
l’accusa a Calabresi di avere assassinato Pinelli. Ci si deve stupire che qualcuno abbia fatto pagare davvero a Calabresi quella morte di cui l’accusavamo, promettendo vendetta? D’altra parte è stato lo stesso Sofri ad ammettere la
responsabilità morale di cui sto scrivendo.
Anche
responsabilità materiale? Davvero Sofri è
il mandante di quell’omicidio? Non lo so. Per quello che lo conosco, mi è difficile credere che una persona di tanta intelligenza abbia aggiunto
alla stupidaggine della predica la follia dell’atto criminale. A naso,
non ci credo. Alcuni libri e articoli sull’argomento sembrano persuasivi. Ricordo però anche di aver pubblicato, in buona fede e perché mi sembrava che gli argomenti fossero fondati, un libro
sull’Incendio di Primavalle che voleva dimostrare
l’innocenza di Lollo e compagni, per apprendere con sconforto negli anni successivi che
gli stessi autori del libro sapevano della loro colpevolezza. I processi non si fanno a naso. Non si fanno nemmeno ascoltando
una sola delle due campane. Sofri è stato giudicato da un centinaio di giudici e l’iter si è concluso con la sua
condanna definitiva.
Naturalmente esistono anche gli
errori giudiziari. Essere condannati non significa che non si possa
continuare a dichiararsi innocenti. Sofri ha tutto il diritto di continuare ad affermare
la sua verità. La condanna non implica nemmeno che tanti suoi amici debbano
smettere di credere nella sua innocenza. Avverso una sentenza definitiva, per far uscire Sofri dal carcere, si può ricorrere solo allo strumento
della grazia. Grazia che Sofri
non ha chiesto e non ha intenzione di chiedere, perché ritiene che compiere quest’atto equivalga a una
dichiarazione di colpevolezza. Ma se è così, allora
ottenere la grazia senza averla chiesta equivale a una affermazione di innocenza. Ancora: se fosse vera
la tesi di Sofri, il fatto che
Bompressi abbia chiesto la grazia significherebbe da parte sua
un’ammissione di colpevolezza che, a causa dell’intreccio processuale tra i due, non potrebbe non coinvolgere anche
lo stesso Sofri. Non solo:
la grazia a Bompressi non può essere concessa, malgrado l’abbia chiesta, perché il provvedimento
coinvolgerebbe lo stesso Sofri, sicché concedere la grazia implicherebbe affermare contemporaneamente
la colpevolezza dell’uno o l’innocenza dell’altro, ciò che è palesemente
assurdo.
Non è scritto da nessuna parte che il condannato che chiede la grazia debba
ammettere d’essere colpevole. Anzi, non è neppure necessario
chiedere la grazia (art. 681 ccp: “La grazia può essere concessa anche in assenza di domanda o proposta”). Ma se non si presenta domanda di grazia per il fatto che ci si dichiara innocenti,
“la grazia – scrive Aldo Cazzullo, in linea generale favorevole al provvedimento, nel recente Il caso Sofri – finisce per essere presentata o comunque concepita come un quarto grado di giudizio... e rimette in discussione [perfino] la scelta di Gemma Calabresi, la quale ha detto più volte che non si opporrebbe alla grazia, purché non sia ‘presentata come riparazione di un torto subito’”.
Sofri e i suoi amici hanno scelto proprio la linea di cercare di ottenere la grazia
non tanto per liberare Sofri dal carcere quanto per
affermare la sua innocenza. Scelta legittima ma impropria, che intanto è costata a Sofri
qualche anno di galera in più. Ammiro la coraggiosa scelta di Adriano di pagare di persona per difendere
un principio. Colpevolezza e innocenza
non c’entrano niente con la grazia. Sofri può continuare a proclamarsi innocente anche fuori di galera, anche dopo aver fatto domanda di grazia. Non può
pretendere invece che
la propria dichiarazione di innocenza tolga legittimità al procedimento giudiziario conclusosi con la sua condanna.