Il capitolo
"Giustizia e Politica" nel nostro Paese rimane da tanti anni aperto e lontano da ogni soluzione, ancor più perché prescinde da un'analisi storica dell'evoluzione della nostra società in rapporto alle istituzioni e, in particolare, alla magistratura.
Non vi è dubbio che il problema ha sempre riguardato ogni Stato in ogni epoca, ancor più l'attuale, tant'è che è stato detto che
il potere del nuovo secolo sarà, appunto, proprio la magistratura. Per capire perché il rapporto tra politica e magistratura sembra essersi rovesciato a tutto vantaggio di quest'ultima, in particolare in Italia, occorre considerare l'aumento dei bisogni sociali, l'evoluzione di molti di questi a rango di diritti e, di conseguenza, la domanda di tutela rispetto ad essi.
Se la politica ha avuto sotto questo profilo un effetto altamente
positivo durante il secolo scorso, nell'alleviare appunto e consolidare la sfera dei diritti individuali, i quali oggi trovano una larga espansione in ogni campo e rendono i cittadini al centro della società, tuttavia essa
non ha saputo governare la domanda sociale e ancor meno la risposta, in termini di rispondenza tra diritti e doveri, al fine di regolamentare responsabilmente l'esercizio degli stessi.
La domanda sociale, massiccia e indiscriminata, ha così spostato il suo interlocutore dalla politica alla magistratura, rendendo quest'ultima arbitro dell'incapacità della politica di offrire soluzioni tempestive e adeguate in misura inversamente proporzionale alla perdita, da parte della classe politica, del governo di quella società che essa medesima aveva contribuito a rendere sempre più frammentata e dove
ogni frammento ha finito col costituirsi come centro di potere in conflitto con ogni altro frammento e, infine, con la stessa politica.
A tale fenomeno si deve poi aggiungere un altro fattore che ha inciso negativamente nei rapporti in esame e cioè l'incapacità e l'inettitudine della classe politica di
rinnovare strutturalmente la società e le istituzioni e, quindi, anche ed in primis, se stessa.
Pertanto, la "modernizzazione" della società italiana è venuta a sovrapporsi ad una struttura vecchia, in gran parte burocratizzata ed elefantiaca, che è rimasta inalterata e ancor più gelosa delle sue prerogative e della sua conservazione.
La politica ha a lungo preferito delegare la risposta ad ogni domanda sociale, così come ad ogni fenomeno più pericoloso per la stabilità della democrazia, dal terrorismo alla criminalità organizzata come ad ogni altra questione di ordine pubblico, alla classe magistratuale, una classe peraltro da sempre costituita e organizzata con
criteri prettamente burocratici.
E' avvenuto così che la magistratura ha aggiunto agli specifici poteri, già molto forti, di una burocrazia arretrata e corporativa, quale essa è sempre stata nel nostro Paese, quelli di
soggetto politico chiamato a decidere sulle diverse e sempre più diversificate istanze economico-sociali, operando inevitabilmente una selezione delle stesse secondo criteri sempre meno omogenei a seconda dell'istante, delle situazioni locali, degli assetti politici da compiacere o da contrastare.
Perciò, in virtù della combinazione e della sovrastrutturazione di tali poteri, quello burocratico e quello politico, la magistratura è venuta nel tempo assommando ai
gravi difetti di una burocrazia chiusa nel suo status corporativo, nella conservazione dei suoi privilegi, pachidermica, lenta e inefficace, i non meno gravi difetti vizi della classe politica, quindi la mancanza di trasparenza nelle decisioni, la cooptazione degli 'amici', l'emarginazione dei non allineati, la elusione costante delle regole, creando a tal fine una complicità interna che non ammette deroghe, un chiuso quanto vuoto ed esasperato senso del potere, il cui arrogante esercizio dovrebbe servire e bastare ad una propria legittimazione, avversando ogni critica ed ogni controllo.
La superfetazione della legislazione penale, che la classe politica provvede continuamente a produrre sia in occasione delle emergenze che costantemente si creano in una società scarsamente governata, quanto poco analizzata, sia in ogni altro settore, spesso sconosciuti anche agli operatori del diritto, il cui mancato rispetto è generalmente tollerato fintantoché non si presenti l'occasione adatta a sollevare il classico scandalo, ha nel tempo aumentato il potere politico della magistratura la quale si è vista affidata la possibilità di spaziare in ogni campo della vita pubblica e, ancor più, della vita privata dei cittadini, fino ad arrivare
a imporre un modello di 'moralità' che gli consente un controllo esteso, ma al tempo stesso selettivo, dei soggetti e dei comportamenti.
D'altra parte, non si deve ritenere che tale fenomeno sia cresciuto senza
le complicità e la compiacenza del potere politico, sia esso di maggioranza o di opposizione. Le leggi utili a tal fine all'una e/o all'altra parte politica sono sempre state oggetto di reciproca contrattazione, perseguendo ciascuna l'intento di poterle usare contro l'avversario o, talvolta, per il fondato timore di essere oggetto di ricatti. Non deve perciò meravigliare che la parte e il soggetto politico che è stato il più fervido fautore di una legge emergenziale, vedi ad esempio quelle in tema di criminalità organizzata, ne sia divenuto la prima vittima.
Altro esempio è stata la legge sul finanziamento pubblico dei partiti politici, tema oggi desueto, così come lo era stato per moltissimi anni fino allo scoppio di 'mani pulite'. Questa, appunto, si può considerare un chiaro esempio di legge allora da tutti approvata e, oggi, falsamente contestata da alcune parti politiche, che pure se ne avvantaggiano. Naturalmente, offrendo in tal modo alla magistratura lo strumento per controllare la vita, spesso inquinata, dei partiti,
la classe politica ha finito con offrirle l'opportunità di selezionare i soggetti politici da colpire o da salvare, ammantando il proprio operato come opera di moralizzazione della vita politica, quella stessa che, fino ad allora, con compiacenza reciproca, aveva fatto crescere nell'illegalità.
Alla magistratura è stato così possibile operare con criteri politici selettivi. E ha colpito quei partiti di governo, quelli stessi che le avevano negli anni fatto acquisire sempre maggiori privilegi e potere politico, ma che non le garantivano, anche per loro intrinseca debolezza causata dall'alto grado di corruzione che eliminava, un ulteriore espansione. La manovra ha così consentito di far andare al governo il maggior partito d'opposizione che, negli anni, s'era legittimato come garante dell'ordine pubblico e morale del Paese, ma che nella sostanza garantiva di realizzare, con pari partecipazione della magistratura, se non proprio agli ordini di essa, il
controllo totalizzante di ampi e selezionati settori della vita pubblica ed economica, non meno di quella privata dei cittadini.
Una specie di
socialismo reale destinato ad affermarsi attraverso lo strumento politico della magistratura, requirente e giudicante, che già da tempo, peraltro, aveva trasformato la sua funzione
da giurisdizionale a socialpreventiva, in pratica in un organismo poliziesco.
Non fu un caso che, all'epoca, molti magistrati considerati
'eretici' furono essi stessi sottoposti a processi per accuse infamanti. Certamente, quel periodo del terrore sembra che sia in larga parte sfumato, anche se poco conosciamo di quello che ha lasciato e dei
gravi guasti che ha prodotto: si preferisce non parlarne, a meno che non sia coinvolto in questioni giudiziarie qualche personaggio politico di alto livello.
Ma il vero problema, oggi, resta soprattutto la giustizia che si abbatte sui cittadini sconosciuti, i quali, a torto o a ragione, si trovano vessati per anni da un
meccanismo incomprensibile, nel quale non trovano un interlocutore per far valere le proprie ragioni e dal quale finiscono con il restare o con il sentirsi
stritolati, anche se per fatti di nessuno o scarso rilievo sociale.
Sono infatti sotto gli occhi di tutti la elefantiasi dei processi e la loro irragionevole durata, che difficilmente può trovare una spiegazione razionale e fondata e che finisce con il costituire uno
strumento di persecuzione di alcuni a fronte delle gravi sacche di impunità di una società tanto lontana dal rispetto delle regole, quanto compiacentemente blandita nel non osservarle.
Insomma,
io non credo che le riforme in cantiere possano sortire effetti particolarmente positivi rispetto a tale situazione, che si aggrava quotidianamente con effetti devastanti nel tessuto sociale. Spesso, infatti, queste risultano
disordinate e sovrastrutturali e tendono, più che altro, alla cooptazione della magistratura, peraltro nella sua stragrande maggioranza sempre pronta a farsi cooptare.
Basti pensare al 'cambio di guardia' dei magistrati ad ogni mutamento di maggioranza politica, impiegati come funzionari o 'consulenti' nei diversi ministeri fino alla Presidenza della Repubblica, o a quelli eletti in ogni partito politico e con incarichi di governo, i quali si guardano bene dal dimettersi nonostante il dovere di apparire ed essere imparziali quando riassumeranno le loro funzioni - magari ad alti vertici -, forti di aver
favorito amici ed avversari politici o esponenti delle distinte correnti magistratuali, di essersi fatti portatori e paladini di leggi penali - emergenziali e non - volte quasi esclusivamente ad incrementare il
potere politico della classe di appartenenza, anche attraverso la creazione di strutture elefantiache ed inutili ma destinate a costituirsi come centri di controllo e di potere, sempre più frammentato ed esteso, destinato, perciò, a configgere e ad esautorare il potere politico.
Stabilire rimedi strutturali è sempre impresa ardua. In ogni caso, rimango convinta del fatto che, prima di affrontare
riforme costituzionali, in cui credo molto, quali la
separazione delle carriere fra organo inquirente e giudicante, frutto di una cultura liberale di cui nessuna forza politica può dirsi oggi seriamente portatrice, che risulta ancora molto lontana dall'affermarsi nella coscienza del Paese e i cui effetti potrebbero addirittura rivelarsi perversi, occorre
razionalizzare l'esistente ed iniziare un serio percorso di separazione dei poteri.
Occorrerebbe inoltre arrivare ad una
drastica depenalizzazione, privilegiando le sanzioni civili o amministrative, anche se limitatamente a fatti e comportamenti davvero lesivi di un interesse di qualche rilievo per la collettività.
In pratica, il codice penale, comprensivo di limitate ed essenziali leggi speciali, dovrebbe costituire lo strumento essenziale per
perseguire solo quelle condotte che mettono effettivamente in pericolo l'ordine pubblico o l'ordine economico della società.
In tal modo, si perverrebbe davvero alla realizzazione del
principio dell'uguaglianza della legge, oggi ampiamente disatteso a causa del numero impressionante di reati, che permetta la selezione anche dei soggetti da perseguire. Peraltro, in tal modo si chiarirebbe altresì la visione di un progetto di costruzione della società e su quali valori, condivisi o meno dalle diverse parti politiche.
Infatti, scegliere un modello integrato e organico di repressione penale, significa esprimere un concetto politico ben preciso di società la cui scelta, invece, non sembra possa, quanto meno allo stato, essere affidata in via occasionale e, di volta in volta, alle diverse maggioranze politiche del momento, trattandosi di coalizioni inaffidabili nella convinzione e realizzazione di autentici principi liberali o comunque protese più alla lottizzazione delle istituzioni - in primis quella giudiziaria - piuttosto che alla comune condivisione dei valori fondanti di una democrazia liberale.
Infine, la riduzione del codice penale a strumento essenziale di regolamentazione della società eviterebbe quella
frammentazione della giurisdizione che si è venuta creando al punto tale che il numero dei giudici non togati è di gran lunga superiore al numero di questi, con l'effetto di creare una moltitudine di centri di potere incontrollabili e incontrollati e, al tempo stesso, una maggiore incertezza del diritto e della sua applicazione.
Un buon inizio sulla via della separazione di poteri dovrebbe basarsi
sull'eliminazione di tutti i magistrati da incarichi e distaccamenti che non siano strettamente propri della funzione giurisdizionale per la quale sono stati assunti e, altresì,
sull'obbligo di dimissioni, una volta che siano stati eletti al Parlamento italiano, a quello europeo o in amministrazioni locali. Basti pensare che, oggi, un gran numero di magistrati sono
assorbiti, per lo più a tempo pieno,
nella giustizia sportiva, nelle commissioni tributarie, in vari organismi pubblici - come ad esempio la Consob -, nelle commissioni parlamentari, nei ministeri - in particolare negli uffici legislativi o di direzione del personale o degli affari civili, quindi con potere in materia d'appalti in stretta intesa con soggetti economici -, presso la Presidenza della Repubblica, in attività di insegnamento anche presso istituti privati, in attività di consulenze varie - dal collaudo di appalti e lodi arbitrali, a organismi di competenza nei più vari settori fino a quelli internazionali - ed infine, ma non ultimo, vengono eletti come parlamentari italiani o europei in ogni schieramento politico, assumendo anche incarichi governativi nello specifico o analogo loro settore di competenza giudiziaria, o come presidente di regione o sindaci nelle stesse circoscrizioni in cui hanno esercitato la propria funzione, spesso dopo aver operato interventi repressivi nei confronti di coloro che sono poi divenuti gli avversari politici rispetto allo schieramento in cui si sono candidati ed eletti.
Si calcola che, tra l'impegno a tempo pieno e quello a tempo parziale, siano impiegati in attività del genere decine e decine di magistrati di carriera, che mantengono contemporaneamente le diverse funzioni giudiziarie con un evidente accrescimento non solo dei propri poteri in ogni settore della vita pubblica e privata, con
commistioni di interessi di nessuna trasparenza ed anzi fonte di grande corruzione, ma anche del potere politico della categoria cui essi continuano ad appartenere e che, proprio attraverso tali suoi rappresentanti e portavoce, accresce ed estende il proprio potere controllando e condizionando, al tempo stesso, quello della classe politica.
Proprio questa proposta, che avanzai isolatamente in Bicamerale e che cadde in un assordante silenzio fu, tra le altre ragioni, quella non secondaria che portò all'affossamento del progetto sulla giustizia con l'accordo di maggioranza e opposizione, essendo interesse comune quello di non perdere un valido strumento di contrattazione con la magistratura, in tal guisa garantendosi reciprocamente gli spazi, anche quelli di grande illegalità.
Nessuna separazione delle carriere potrebbe portare ad una effettiva separazione dei poteri, se mancano, come in effetti oggi avviene, i presupposti di legge essenziali perché tale separazione esista in concreto e non solo in teoria.
Ma nessuno ha interesse a parlarne e a procedere su questa via, preferendo invece, ciascuna delle parti, avanzare
'pseudo-riforme' che mantengano inalterato il caos della giustizia e l'inconsistenza della politica, entro spazi, però, reciprocamente garantiti di esercizio incontrollato del potere.