Il
6 gennaio scorso, nel giorno del primo anniversario degli attentati contro la redazione di
'Charlie Hebdo', la città di
Parigi ha vissuto di nuovo l'incubo del terrorismo: un uomo è stato ucciso dinanzi a un commissariato in un quartiere multietnico nella parte settentrionale della capitale francese, mentre tentava di aggredire un poliziotto. L'attentatore, secondo fonti del
ministero dell'Interno transalpino, aveva un coltello da macellaio e un dispositivo che sembrava essere una cintura esplosiva. E prima di essere abbattuto, ha gridato:
"Allah è grande". Un altro preoccupante segnale d'inadeguatezza delle autorità francesi, dopo le polemiche per l'impreparazione dell'intelligence di fronte all'offensiva di un anno fa dei
fratelli Kouachi contro
'Charlie Hebdo'. Un episodio che sta divenendo un caso politico che deborda oltre i confini transalpini, toccando il delicato tema dell'integrazione etnica e del multiculturalismo in Europa. Soprattutto in Paesi come
Francia, Inghilterra e
Germania, in cui la percentuale degli
'stranieri' immigrati è davvero elevata. Il fenomeno immigratorio, negli ultimi anni, oltre alla
Francia, sta investendo massicciamente anche altri Paesi, compreso il nostro. Secondo le statistiche
dell'Unione europea sulle migrazioni internazionali, se è vero che, nel
2013, la
Germania ha registrato il numero più elevato di immigrati, quest'ultima risulta seguita dal
Regno Unito, dalla
Francia e, quindi,
dall'Italia e dalla
Spagna. Nel
2014, il numero maggiore di stranieri residenti
nell'Ue è stato registrato in
Germania, Regno Unito e, a seguire, da
Italia, Spagna e
Francia. Ciò significa che è giunta l'ora di sottoporre a critica costruttiva il
fenomeno migratorio prima che sia troppo tardi e che, tra qualche decennio, ci si ritrovi come in
Francia. Guardando, in effetti, a quanto sta accadendo in
Europa, sorge un dubbio sull'effettiva efficacia delle politiche di
integrazione etnica: secondo molti, gli stessi reiterati episodi di terrorismo che nell'ultimo ventennio hanno interessato
Parigi, Londra, Madrid e i recenti fatti di
Colonia, potrebbero costituire l'effetto di
mancate o errate politiche di integrazione degli immigrati da parte dei Paesi che li accolgono.
Immigrazione e terrorismoLa domanda che dobbiamo porci, in primo luogo, è la seguente:
è corretto stabilire una correlazione diretta fra terrorismo e immigrazione, come spesso capita di leggere sui giornali e come di frequente viene sottolineato da alcuni esponenti politici italiani? Se dovessimo analizzare superficialmente gli episodi di cronaca estera, affidandoci meramente al dato quantitativo, la risposta sarebbe di certo affermativa. Ricostruendo una cronologia degli attacchi terroristici in
Europa degli ultimi vent'anni per opera
dell'integralismo islamico, emerge, in effetti, come i Paesi più colpiti, nella fattispecie
Francia, Spagna e
Inghilterra, siano anche quelli con una maggior percentuale di
immigrati. La situazione appare particolarmente delicata in
Francia, dove gli attacchi da parte dei gruppi islamici sono iniziati nel lontano
25 luglio 1995, quando una bomba nella stazione di
Saint-Michel della metropolitana di parigina ha ucciso e ferito diverse persone. Il
2 novembre 2011, gli uffici della redazione di
'Charlie Hebdo' sono stati distrutti da una bomba dopo la pubblicazione di una
vignetta satirica sul profeta
Maometto. Nel
marzo 2012, un uomo armato, legato ad
al Qaeda, ha ucciso diversi civili a
Tolosa, nel sud della Francia. Il
7 gennaio 2015, alcuni uomini hanno attaccato con armi da guerra la redazione del settimanale satirico francese
'Charlie Hebdo', sempre a
Parigi. E il
13 novembre scorso,
l'Is ha concentrato una serie di attacchi armati in alcuni quartieri della capitale francese, allo
Stade de France, a Saint-Denis, nella regione
dell'Île-de-France. Nonostante ciò, associare in modo del tutto superficiale il terrorismo al fenomeno migratorio potrebbe essere una
'trappola mortale', dalla quale difficilmente potremmo uscirne indenni. Entrambe queste problematiche andrebbero analizzate per bene e inquadrate in una cornice di dati quantitativi e qualitativi, attraverso un'anamnesi precisa delle loro radici, scevra da ogni
'finto buonismo' o
moralismo a cui noi italiani siamo, purtroppo, abituati. Chiudere le frontiere, varare leggi restrittive sull'immigrazione, punire per colpe non loro i tanti musulmani che vivono in pace tra di noi, come proposto dai vari
Matteo Salvini, Marine Le Pen e altri
'compagni di merende', è soltanto un ottimo sistema per
peggiorare la situazione. D'altra parte, non possiamo nemmeno negare che l'immigrazione, se non adeguatamente gestita, possa diventare un'arma a favore dei terroristi islamici: a dimostrarlo, le recenti informative dei
Carabinieri del
Ros pubblicate da alcuni giornali, che costituiscono validi elementi di prova sulle connessioni tra determinate attività illecite e le capacità di reperire finanziamenti per le attività terroristiche (nello specifico i guadagni legati al traffico di migranti).
Cos'è l'integrazione?In questi giorni, i media hanno disquisito - talvolta impropriamente - sulla possibile correlazione tra alcuni fenomeni di violenza (terrorismo compreso) a opera degli immigrati e
il fallimento delle politiche di integrazione operate da Paesi del
nord'Europa, quali
Inghilterra, Francia e
Germania. Ma esiste davvero questa connessione? Quando s'invoca per gli immigrati una politica volta all'integrazione, di cosa stiamo parlando, in realtà?
Che cosa intendiamo esattamente? In che cosa pensiamo che gli immigrati debbano integrarsi? Innanzitutto, va precisato che esistono diversi tipi di integrazione:
sociale, economica, politica, culturale, sistemica e solidaristica. Ne sottendono diverse correnti di pensiero, che trovano, nell'una o nell'altra forma di integrazione, la via preferenziale per definire il modello migliore. Quella
sociale riflette uno stato della società in cui tutte le sue parti, risultando saldamente collegate tra loro, formano una totalità rispetto all'esterno; quella
economica, invece, vede nello scambio di mercato, nel libero contratto e nell'incremento del benessere capitalistico, l'elemento essenziale d'integrazione; secondo la teoria
'politica', il rapporto tra élite e masse costituisce la struttura fondamentale della società, la cui integrazione si fonda essenzialmente sulla capacità di comando delle
élites e quando questa non può più essere rinnovata attraverso il reclutamento costante di buoni quadri dirigenti o si esaurisce, la società si disgrega, finché una nuova
élite in ascesa non riesca a ristabilire una nuova forma di coesione sociale con la propria capacità di comando; nelle teorie
dell'integrazione culturale, invece, al posto dello scambio economico e della coercizione politica subentra
l'intesa fondata su una ragione universalmente condivisa, per esempio attraverso i processi
d'intesa linguistica o più propriamente
comunicativa; se l'integrazione sistemica si focalizza sulle relazioni ordinate e conflittuali tra intere parti di un sistema sociale, quella
solidaristica - spesso esclusa dalle altre teorie - considera
la solidarietà e l'appartenenza a determinati gruppi elemento essenziale dell'integrazione sociale. Il limite delle teorie d'integrazione finora elencate si manifesta, in effetti, nella loro incapacità di fornire risposte adeguate alla
questione etnica e al problema identitario della
nazionalità e del
nazionalismo, che abbiamo visto essere centrali soprattutto per gestire il fenomeno dell'immigrazione. L'integrazione
solidaristica, invece, individua le radici del problema nello
sviluppo sfrenato dell'individualismo e del
progresso scientifico o tecnocratico delle società contemporanee.
"La disgregazione della società", affermava
Rousseau, "avviene quando non ne viene garantita la coesione attraverso un nuovo patto sociale, dal quale nasce una comunità di cittadini". Secondo questa teoria, l'integrazione richiederebbe, pertanto, una
'nuova religione civile', una fede comune in grado di integrare/aggregare culturalmente e socialmente tutti gli abitanti di uno stesso Paese. Come? Certamente,
non attraverso la famiglia, un'unità troppo limitata e particolaristica; né mediante lo
Stato, troppo vasto e lontano; tantomeno (ne siamo convinti oggi più che mai) attraverso
la religione, non abbastanza forte per assicurare l'integrazione dell'individuo nella società. Una strada potrebbe essere quella del
lavoro: i gruppi professionali sono ancora abbastanza vicini all'individuo e, a loro volta, pienamente integrati nel sistema della divisione e dell'organizzazione del lavoro. La
cooperazione dei gruppi professionali nella regolamentazione dell'economia e la loro partecipazione al processo decisionale politico potrebbero
assicurare l'integrazione di una società basata sulla divisione del lavoro (tutte caratteristiche dell'ordine corporativo di matrice medievale). In ogni caso, al di là delle singole teorie elencate, è interessante notare come gli studiosi del settore siano concordi nel ritenere che i più gravi problemi d'integrazione nascano, oggi, in quei Paesi la cui identità nazionale risulta fondata non su una
libera comunione di volontà, ma
sull'appartenenza etnica e culturale, nonché sulla
convivenza 'coatta' non partecipata. Va chiarito, inoltre, che esistono diversi tipi di integrazione e diversi modelli di gestione della pluralità culturale: tra tutti, quello
anglosassone e quello
francese, spesso contrapposti dai media.
Il multiculturalismo fallito A pochi mesi dagli ultimi episodi di terrorismo che hanno coinvolto la
Francia e considerando anche le ultime vicende di
Colonia, in
Germania, dove nella notte di san Silvestro alcune donne sono state aggredite da uomini d'aspetto di origine
araba e nordafricana, cui sono seguiti ulteriori episodi di
razzismo, xenofobia e
violenza da parte della popolazione locale, è lecito domandarsi:
il multiculturalismo in Europa è definitivamente fallito? Difficile rispondere, almeno in maniera univoca, perché la situazione differisce da Paese a Paese. Ma è impossibile anche non ricordare, soprattutto dopo i fatti di
Parigi, che nell'ultimo attentato terroristico gli assassini disponessero in larga maggioranza della
cittadinanza francese. Un elemento è apparso subito chiaro: non tutti, nel mondo, sono
'Charlie Hebdo'. Soprattutto, non lo sono molti giovani e giovanissimi musulmani, immigrati di terza generazione e cittadini francesi come i
fratelli Kouachi e
Amedy Coulibaly, cresciuti nelle
periferie parigine. Nella capitale francese, in effetti, esiste da tempo una situazione esplosiva nelle
'banlieues' (l'area periferica dei grandi agglomerati urbani francesi), le cosiddette
'città di transito', residenze prima provvisorie e poi definitive per la nuova manodopera affluita
dall'Africa sin dai tempi delle prime
colonizzazioni. Periferie caratterizzate dal degrado e dalla mancanza di infrastrutture. Fin dalla loro creazione, esse hanno alimentato, tra i più giovani, la
criminalità. In particolare, il traffico di droga e di armi, così come gli episodi di violenza, tra cui le famose rivolte del
2005. Le ragioni del
fallimento del
multiculturalismo francese potrebbero risiedere proprio lì: in particolare, nell'aver riconosciuto sin da subito una
profonda differenza culturale tra indigeni e francesi, tra
conquistati e conquistatori, non solo attraverso l'attività legislativa, in particolare con lo
'Statut de droit musulman', emanato sin dai tempi della
seconda Repubblica francese. Normative che hanno sancito l'esistenza di cittadini
'pleno iure' e di cittadini
'minuto iure': in altre parole, di serie
'A' e di serie
'B'. Anche attraverso la definizione dello
spazio urbano e architettonico atto ad accogliere gli
immigrati, la
Francia dell'ex impero coloniale si trascina forme di
emarginazione legislativa, umana e ambientale, assolutamente in contrasto con il
'finto buonismo' di gran parte del popolo francese, che ha pagato a caro prezzo i suoi ideali di
'Liberté, Égalité, Fraternité' accordando alla
comunità islamica una
cittadinanza che altrove - in
Germania, ma soprattutto in
Gran Bretagna - è stata gestita in modo assai diverso. Come c'era da aspettarsi, un atteggiamento di
apertura superficiale e fittizia nei confronti degli
'stranieri' e, in particolare, del
popolo islamico, si è ritorta contro i francesi proprio perché fittizia e superficiale. Per comprendere appieno
il fallimento del multiculturalismo in Francia, un Paese che, lo ricordiamo, possiede la più estesa
comunità islamica europea (escludendo quella russa), dovremmo forse guardare anche alla
scarsa 'resilienza' (in psicologia, è la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà) dei
francesi e alla loro sostanziale incapacità di leggere con precisione i mutamenti socio-politici in atto. Soprattutto quelli che riguardano i cittadini di fede
musulmana, i quali da tempo hanno cambiato le regole del gioco, specialmente a seguito
dell'11 settembre 2001 e di quanto accaduto in
Iraq e in
Afghanistan, con la nascita
dell'Is. La successiva lunga e profonda
recessione, colpendo le fasce più umili di popolazione e alimentando invidie e rancori sociali, non ha di certo aiutato. Ma
nemmeno i francesi si sono 'aiutati', affidando il contenimento della povertà e dell'isolamento delle periferie a
circoscritti episodi di volontariato promossi da alcune
associazioni locali e al rafforzamento dei controlli da parte delle
forze dell'ordine, rinunciando a elaborare una vera
politica d'integrazione. In
Francia, si è iniziato a parlare di questi problemi solamente negli anni '80 del secolo scorso, dopo le affermazioni di connotazione xenofoba del
Front Nationale guidato da
Jean Marie Le Pen. Per concludere, ciò che in questi ultimi anni sta accadendo in
Europa deve farci riflettere soprattutto su come, adesso e in futuro, intendiamo
gestire i flussi migratori e il grande numero di stranieri che hanno scelto
l'Italia come nuova
patria putativa. Possiamo valorizzarli, renderli una risorsa non solo in termini economici, ma anche culturali, integrandoli nel nostro sistema, fornendo loro e soprattutto ai loro figli, che cresceranno affianco ai nostri,
un motivo per cui 'lottare', per sentirsi realmente
'italiani'. O, per contro, possiamo considerarli degli
'ospiti', emarginarli, allestire per loro delle
'baraccopoli', relegarli in delle vere e proprie
'città fantasma', creando dei
'ghetti' facilitando, in tal modo, esplosioni di violenza urbana, come già avviene in molte periferie del nostro Paese. Del resto, una
reale integrazione potrà essere possibile solamente se e quando gli Stati coinvolti dal fenomeno migratorio riusciranno a mettere in atto
politiche di ridefinizione della comunità locale in termini di
comunione di volontà, anziché di
origini etniche, razziali e culturali. In una società dinamica e in continua evoluzione come la nostra, tutto ciò risulta molto difficile. Ma porsi degli
interrogativi sulla questione è, oggi, più che mai fondamentale, soprattutto per tentare di porre un argine ai ricorrenti episodi di
violenza xenofoba che, quotidianamente, costellano le pagine dei giornali di tutto il mondo.