Domenico BriguglioIl profondo nord norvegese non smette di produrre artisti. E così, David Prytz approda a Roma, più precisamente nella galleria Mario Iannelli di via Flaminia 380 con la sua prima personale. L'opera di David, un'istallazione, a prima vista suscita una certa perplessità, composta com'è da materiali generalmente usati per produrre o riparare altre cose come plexiglass, fasci e cavi di rame uniti da nastro e gesso, carta specchiante, luci led e pietre. Il tutto mosso da ingranaggi e piccoli motori che la muovono e attorcigliano come se avesse vita propria. Diciamo subito che nulla è stato abbellito o nascosto. E che tutte le giunzioni e articolazioni dei materiali sono visibili, dando un forte senso di precarietà. Dopo il primo impatto, siamo subito spinti a dare una funzione a tutto l'insieme e, nello sforzo, il nostro pensiero si arrampica e attorciglia proprio come i meccanismi dell'opera, nel tentativo di trovarne una qualsiasi, in un processo logico che non trova appigli, riferimenti, elementi, ritrovandosi infine in una spirale irrisolta. In effetti, il modello forma un disegno astratto, che si autoalimenta, trovando una funzione solo in se stesso, nel suo esistere. Ecco che noi spettatori, senza un filo logico che ci conduca verso un senso compiuto, ci allontaniamo progressivamente dall'opera, senza includerla in nessuno degli schemi o dei modelli del nostro vissuto e della nostra esperienza culturale. Ma proprio in questa 'distanza', in questo estremo distacco, l'opera raggiunge il suo scopo: bastare a se stessa, totalmente indifferente allo sguardo cooptativo di chi la osserva, accostandosi in ciò all'eterno mistero dell'universo, che più cerchiamo di indagare, misurare, collocare, capire e più ci sfugge nel suo fine ultimo, rendendoci semplici oggetti o testimoni della sua esistenza e della sua creazione. L'istallazione, intitolata 'Tabula rasa again' è completata da foto su lightbox e disegni geometrici, che si rivelano complementari a un processo in corso: 'Literal geometry', 'Two point moving in space', 'Dumb alchemy' sono titoli rivelatori. La proiezione, in una sorta di camera oscura dal titolo 'Many suns' è il completamento ideale di tutto il concetto informatore della mostra: un processo senza inizio o fine, che trova il suo senso solamente in se stesso.


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