Raffaello MorelliTrovo utile per i laici commentare le tesi che il giornalista Carlo Patrignani riferisce nell’articolo pubblicato di recente sul blog ‘Huffingtonpost.it’ - e rilanciato di recente da 'Laici.it' - intitolato: ‘La fine del consociativismo’. Concordo come il risultato elettorale ci abbia consegnato fatti nuovi. A mio parere, però, sono  assai diversi dai quelli  indicati. Il primo sarebbe la inevitabile ricerca di una “nuova teoria del simbolico e di una soggettività che sappia mobilitare le passioni e non solo affidarsi alla razionalità". A meno di  sostenere che le elezioni servono a stabilire solo chi vince la lotta per il potere e non a scegliere quale sia il progetto politico operativo per convivere, la lezione ricavabile dai fatti elettorali spinge nella direzione opposta. Anche gli esperimenti degli ultimi 19 anni hanno dimostrato che affidarsi solo alle simboliche passioni di potere (gli elettori di centrodestra che votano contro la sinistra e gli elettori di sinistra che votano contro il centrodestra) non risolve, anzi neppure affronta, i problemi concreti del quotidiano. E quindi, rendendo i Governi delle epifanie simboliche di chi ha prevalso al momento, finisce per aizzare la rabbia dello scontento, sia per le promesse non mantenute, sia per un’azione nel quotidiano troppo distante dall’auspicato (per cui, nel tempo, il simbolico aggrava i problemi). I recenti risultati elettorali confermano una cosa già provata dalla Storia e dalla cronaca: i simboli in quanto involucri privi di contenuti raziocinanti, anche quando sono alla moda restano fugaci e autodistruttivi. Viceversa, è l’uso raziocinante dello spirito critico, che mantiene il collegamento con i fatti reali e può innescare davvero il cambiamento. Peraltro, è proprio lo scollegarsi dai fatti reali e il preoccuparsi solo di conquistare potere che fa prevalere quel simbolico che rifugge la razionalità, o la usa poco e male, all’insegna del drogarsi con il sogno eccitante, nell’illusione di rendere così possibile l’impossibile. Quando poi, come oggi al Senato, nessun approccio simbolico riesce a prevalere, allora ci si ritrova smarriti e riesce molto difficile  riconvertirsi ai comportamenti razionali per trovare contatti tra diversi tramite i quali  stabilire il da farsi: o il simbolico si aggiunge a un disegno razionale legato al reale, oppure esso diviene la tomba dello spirito laico. Il danno fatto dal ricercare il simbolico, invece che la conoscenza razionale del reale, è tanto più grave perché snatura il raziocinio, anche quando ne fa uso. Con questa osservazione si arriva al secondo fatto nuovo che, secondo quanto riferisce Patrignani, ci avrebbe consegnato il voto di febbraio. E’ sostanzialmente esatto che con questo parlamento si è arrivati alla fine del consociativismo come inciucio per il potere. Però in senso opposto a quanto si rileva. Si dice che è stato posto fine alla prassi dell'adattare la linea politica allo 'status quo' (consociativismo) invece che al 'cambiamento radicale'. Ciò è vero solo fermandosi all’idea che il cambiamento radicale prescinda dai dati fattuali e consista nel sostituire al modello rigido di potere esistente, un altro modello rigido, affidandone ora la gestione a titolari differenti che promettono la ‘luna’ ancora una volta (è questo quel che è successo con la vecchia contrapposizione consociativa, in cui si perseguiva il cambiamento come nuova ripartizione del solito potere, senza riforme). La questione è tutta differente se, invece, si pensa al cambiamento come trasformazione delle condizioni di vita. Non radicale, ma limitata ed effettiva, concepita non per avere un nuovo modello rigido, bensì per ridurre, in modo empirico e realistico, la mancanza di libertà del cittadino nelle sue varie forme, da quelle primarie dei diritti civili diversi per diversi cittadini o categorie di cittadini, a quelle più particolari e sottili, ma non meno negative, nella quotidianità. Lo scopo è far evolvere la libera convivenza. Occorre rendersi conto che è impossibile pensare di vivere avendo del tutto eliminato i vincoli esterni a sé e ai propri conviventi. Nella vita esistono sempre dei vincoli esterni, naturali e nei rapporti umani, che impongono di rispettare l’ambito delle regole pubbliche, se si vuole mantenere i sistemi di libera convivenza più maturi dell’homo homini lupus. Esser consapevoli di ciò è la premessa ineludibile per costruire l’alternativa liberale e laica nel sistema. Se si vuole affrontare la mancanza di libertà civile (quando questo è il problema) e comunque la sua insufficienza (di continuo, spirituale e materiale) è indispensabile partire non da un sogno esaltato di libertà, bensì da un’analisi consapevole delle condizioni fattuali in cui ci si trova, in modo poi da poter progettare una qualche iniziativa correttiva delle illibertà presenti (con nuove norme, oppure con interventi più diretti). Il nocciolo sta proprio nello stretto legame tra i dati sperimentali e i progetti per acquisire libertà risanate e nuove rispetto a tali dati. Un legame che permette di tener conto il più possibile del passare del tempo fisico. Per attuare davvero questo cambiamento razionale, si deve passare dal perseguire modelli rigidi, magari utopici, all’idea di scegliere di volta in volta - e realizzare - correzioni praticabili, sempre con la determinazione di mantenere e allargare la libertà dei cittadini. Su questo punto agisce l’alternativa di tipo liberale e laico. Infatti, è il solo sistema politico che, fondandosi sulla metodologia individuale e sul conflitto secondo le regole, permette di tener conto del cambiare fisiologico di tutte le cose al passare del tempo. Per esempio, le leggi sono tanto più efficaci e durature quanto più sono provvisorie e duttili (in altre parole, vanno rispettate quando ci sono e di continuo adeguate ai tempi, cioè l’esatto contrario del costume italiano). E così per gli aspetti fisici, dalle costruzioni agli strumenti utilizzati nella nostra vita quotidiana, tutto funziona meglio e più a lungo quanto più è in grado di sopportare il procedere del tempo fisico. Mettere a fuoco tale necessità è determinante dal punto di vista politico-progettuale per poter interagire efficacemente con la vita reale. Ma non basta capirlo, è anche necessario praticarlo come prassi politica di ogni giorno. Invece, è evidente che ciò non avviene. Andando sempre alla ricerca del mitico cambiamento radicale non si pratica neppure la manutenzione istituzionale minima richiesta per far sopravvivere le istituzioni funzionanti rispetto a una realtà, nel frattempo, mutata. Si immagina una grande novità e si pratica nei fatti la conservazione del potere esistente. Anche qui, ciò che riferisce Carlo Patrignani – l'esplosione del Movimento 5 stelle sarebbe "la reazione degli strati sociali che si sentono esclusi e non rappresentati dalle logiche e dagli apparati dei Partiti" – è una verità del tutto parziale, che non coglie (piuttosto contrasta) la vera portata del fenomeno a meno di non precisare che la reazione è comprensibile, ma espressa in modo del tutto contraddittorio. Impostata così, serve solo a ripercorrere le strade oniriche e illiberali della ricerca dell’utopia della democrazia diretta (che, per di più, democrazia non è) già ampiamente fallite al ripetuto vaglio della Storia. La reazione coerente con la costante ricerca del cambiamento raziocinante è il voto dato per giudicare quanto fatto e per preferire uno dei progetti presentati. Comportandosi così, si prende parte davvero alle scelte quali cittadini e non si resta imprigionati dai Partiti, anzi li si obbliga a rispondere di quanto fatto e di quanto si propongono di fare. Dunque, anche nel voto si deve stare ai fatti per non ricadere nel sogno utopico, che non tiene conto dei dati sperimentali, né della affidabilità di promesse vecchie in partenza, né dei sogni degli altri. In ciò consiste la fine effettiva del consociativismo. Sviluppato fin qui il ragionamento,  emerge chiaro che per rendere possibile un voto di tal genere è indispensabile anche che esista, tra le liste presentate, l’offerta programmatica delle idee corrispondenti. Se, adducendo diverse scusanti, i fautori di quel genere di voto (il funzionamento delle scelte nella convivenza e la loro qualità) non si impegnano innanzitutto per mettere in campo le liste fondate sul cambiamento raziocinante, non potrà esistere neppure la possibilità che il cittadino esprima un voto di quel tipo. Ciò mi pare davvero inconfutabile. Ne derivano comportamenti necessari da subito. Oggi si tratta di utilizzare la vera opportunità innovativa che scaturisce dalla mancanza di una tradizionale maggioranza politica al Senato (irraggiungibile anche con pratiche di vetero parlamentarismo). E allora, i gruppi politici che ne sono i naturali fautori – e dunque quelli di cultura laica, liberale e socialista democratica senza rimpianti per le suggestioni marxiste e utopiche – devono cominciare a sostenerlo con aperta coerenza. Ora, per governare occorre abituarsi a farlo su quei punti su cui convergono forze diverse impossibilitate a riconoscersi su un programma di governo più completo (che, in quanto più completo, è per ciò stesso più simile al governo con modello rigido e palingenetico). Intanto, per esempio, le difficoltà odierne si possono superare cercando la convergenza su quattro cose:  Europa, riforma della legge elettorale  con il doppio turno,  abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, immediato pagamento dei debiti dello Stato verso i privati. Questo per l’immediato. Però occorre anche un salto in prospettiva e, proprio sfruttando l’attuale condizione del Senato, occorre attivarsi per creare una colleganza politica operativa in chiave politico elettorale. Con l’intento di costruire, non di sognare. Superando ciò che di vecchio persiste su ambo i versanti. I cittadini che si sentono  liberali devono compiere il passo definitivo del distinguere nettamente liberalismo da liberismo (il liberismo, limitandosi ai soli problemi economici,  si distacca dalla vita che non è solo economia, e con ciò si distacca dal liberalismo, che non può esserci senza libertà in tutti i rapporti umani). Ed anche, sganciarsi dal residuo identificare  sinistra e progetti comunisti. Il socialismo democratico, dismettendo il ricordo di una dimensione del lavoro sorpassata, deve affrancarsi dal complesso verso l’anima del PD abbarbicata alla pratica del modello rigido di potere, che usa il consenso dei cittadini per il proprio governo piuttosto che governare con una progettualità mirata a rendere più liberi cittadini diversi. Allo stesso modo, gli ambienti socialisti non possono convergere con chi, per farsi bello, scimmiotta le pratiche del M5S, teorizzando una politica di strumenti informatici alla moda, che mima la presenza partecipata per meglio eludere la reale partecipazione critica e si scorda del confronto delle idee tra i cittadini (senza cui non esistono davvero libertà e democrazia) sostituendolo con l’enfasi sugli strumenti per farlo al momento (che, con il conformismo, di nuovo negano la diversità nella convivenza). L’occasione della mancanza di una maggioranza tradizionale al Senato, va colta per iniziare ad aggregare sulle culture dei socialisti democratici e dei liberali, ambedue rivolte al cambiamento appunto per corrispondere alle necessità di esigenze diverse. Dunque connesse ad una politica su accordi limitati tra diversi  e non alla ricerca di imporre le proprie idee agli altri. Se si lamenta – come richiama Carlo Patrignani – l’effetto destabilizzante  del risultato elettorale odierno e si continua a proporre una ristrutturazione della sinistra, in particolare del Pd, su un nuovo paradigma culturale e politico a fronte della gravissima e non transitoria  crisi del capitalismo finanziario, si ripetono all’ingrosso nella forma, senza coglierne il concreto senso politico, le idee sostenute già negli anni ’80 dal presidente d’onore dell’Internazionale Liberale Ralf Dahrendorf. Per innovare la politica con al centro la persona umana, il catalizzatore che serve ora in Italia non è la ristrutturazione della sinistra e del Pd, legati al modello rigido e alla politica di potere, è la formazione di un’area politica imperniata su laici, socialisti democratici e liberali, che non abbia, complessi di inferiorità verso il Pd. E che dunque non confonda l’impegno politico per costruire le condizioni dignitose per ognuno di libertà e, in genere, di vita, con le parole d’ordine dell’automaticità dei diritti e addirittura dell‘obbligo all’uguaglianza (i cittadini sono diversi ed è ideologia irrealistica pretendere, invece, che siano uguali). Se riusciremo a formare quest’area, il consociativismo sarà davvero finito.


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Vittorio Lussana - Roma/Milano/Bergamo - Mail - sabato 30 marzo 2013 21.31
RISPOSTA AL SIG. INTROZZI: gentilissimo lettore, mi spiace contraddirla sul tema - pur comprendendo lo spirito e la sostanza del suo commento - ma lei si rivolge all'esperienza elvetica, ovverosia al cosiddetto 'federalismo cantonale', che tuttavia è forma di governo scientificamente praticabile solo in Paesi geograficamente limitati e non eccessivamente popolosi. Inoltre, quel tipo di modello prevede comunque una serie di contrappesi del Governo centrale, che richiamano pienamente quel principio di sussidiarietà tra 'centro' e 'periferia' il quale potrebbe essere introdotto - in ciò lei ha ragione - anche nella nostra Costituzione. Tenga però presente che l'Italia, un Paese con una popolazione numerosa e con una conformazione culturale assai variegata, ha tradizionalmente e storicamente privilegiato un campanilismo tutto imperniato attorno a gonfaloni e, appunto, 'campanili', rischiando di non riuscire a portare a sintesi determinate decisioni e processi necessari e urgenti, soprattutto nell'ambito di materie che non possono essere di competenza locale, ma che per forza di cose debbono rientrare nell'interesse generale. L'autonomia locale, insomma, può sussistere, ma nelle forme e con limiti ancora tutti da prevedere, rispetto agli attuali. Infine, per principio i laici non sono contrari all'introduzione di alcuni elementi di democrazia diretta, ma senza che ciò vada a discapito della competenza e della meritocrazia. Anche su tale terreno, lei mantiene qualche ragione, essendo il nostro il Paese forse più antimeritocratico d'Europa, in numerose professioni e mestieri. Tuttavia, anche questo problema deriva da uno sviluppo fortemente accelerato, che ha dovuto affrancare l'Italia dalla propria arretratezza nel giro di pochi decenni, in una sorta di industrializzazione 'forzata' che non sempre ha prodotto i risultati sperati nei termini di un superamento definitivo di molte contraddizioni e in favore di un progresso pieno e completo. Buona Pasqua e grazie per il suo stimolante commento. VL


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