Chiara ScattoneIn questi ultimi anni, il mondo occidentale, in particolare quello economico e finanziario, ha cominciato a guardare con sempre maggiore interesse alla finanza islamica e alle sue regole economiche. Un sistema, quello islamico, che ha dato prova di grande resistenza, soprattutto in questi ultimi mesi, durante i quali la crisi economica mondiale si è fatta sentire con maggiore intensità. Perché non si sono verificati anche nel mondo arabo - islamico casi come quelli della Lehman Brothers o delle altre banche di affari americane ed europee? Perché le banche islamiche continuano a vivere un momento d’oro, registrando utili e incrementi nelle proprie attività finanziarie? Si potrà obiettare che, oggi, anche alcuni Paesi della penisola arabica stiano soffrendo e che la pessima congiuntura internazionale abbia raggiunto i ricchissimi emirati arabi di Dubai e del Bahrein. Ma le banche islamiche, loro, non hanno subito inflessioni, tentennamenti o turbamenti, né hanno sentito il bisogno, per carenza di liquidità, di appellarsi agli aiuti dell’istituto centrale del sistema bancario islamico internazionale, la Islamic Development Bank o dei vari istituti centrali nazionali. Nella storia della finanza islamica, solo una volta, nel 1984, la Kuwait Finance House, a causa di una crisi mobiliare, dovette ricorrere alle sue riserve interne per tutelare i propri depositanti e le proprie attività, evitando così il crack. Finora, non abbiamo mai sentito parlare di crisi del mercato finanziario ed economico islamico, perché? Cosa differenzia la finanza islamica, o meglio l’economia islamica, da quella occidentale? Non è certo il divieto degli interessi (denominati in arabo ribà o indebito accrescimento) a essere il solo elemento vincente. Non è nemmeno il divieto di commerciare in prodotti e alimenti vietati dalla religione, quali ad esempio le armi o gli alcolici. E non è certamente e il solo divieto di non operare con derivati finanziari aleatori, quali gli swap o i Cds (credit default swap). Un antico hadith o ‘detto’ risalente al Profeta Muhammad afferma: “Scambiate l’oro con l’oro, l’argento con l’argento, il grano con il grano, i datteri con i datteri, il sale con il sale, un prodotto con un altro prodotto che sia dello stesso genere, di mano in mano. Chi aumenta o chiede un aumento, pratica l’usura, tanto se si tratta di chi lo prende o di chi lo dà”. Ovvero, gli scambi commerciali devono avvenire ‘di mano in mano’ (yad bi yad) e in quantità uguali (mithl bi mithl). Principio questo che esplica, in parte, il divieto dell’usura. Divieto, quest’ultimo, non sconosciuto al nostro diritto e alla nostra storia, sia cristiana, sia ebraica e che risale fin alle nostre radici religiose, bibliche, testamentarie, alla nostra società mediterranea, medievale o moderna. Fin dai prodromi della nostra cultura, il sistema economico e commerciale era in parte regolato da norme che vietavano l’utilizzo di strumenti commerciali ‘usurari’. O, meglio, questi ultimi erano tollerati solo se utilizzati da una specifica parte della società: gli ebrei (solo gli ebrei potevano operare commercialmente mediante l’utilizzo del prestito oneroso principalmente per due motivi: la prima di natura biblica, “non farai a tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta ad interesse. Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello”, Deuteronomio XXIII, 19-20; la seconda di natura sociale, già in epoca medievale le società europee, in primo luogo quella italiana, discriminavano le comunità ebraiche relegandole in aree abitative cittadine ben determinate, vietando ai suoi appartenenti di compiere molti dei mestieri riservati ai soli cristiani. Ad esempio, gli ebrei potevano essere medici, né banchieri, poiché potevano ‘toccare’ elementi impuri quali il sangue e il denaro). Il diritto canonico, per meglio dire la tradizione testamentaria risalente in primo luogo a Luca, ha sempre considerato l’usura, più comunemente indicata con il termine di mutuo, un’operazione economica illecita e iniqua: “Mutuum date nihil inde sperantes”, ovvero prestate a mutuo senza sperare di ricevere nulla in cambio. Teologi e giuristi da secoli ancora dibattono sul reale significato di tale espressione, che ha giocato un ruolo estremamente interessante e importante nell’evoluzione del sistema economico che tutti oggi conosciamo e nel quale viviamo. Non è certamente questo il luogo più adatto per addentrarsi in un argomento così complesso come quello dell’interpretazione di tale espressione. Ci basti però riflettere, almeno a grandi linee, sulle modalità di come il divieto delle usure, presente in tutte e tre le religioni monoteistiche (e quindi non avulso nel nostro sentire comune) abbia per l’Islam giocato un ruolo essenziale nella costituzione di un sistema economico che oserei definire ‘alternativo’. Alternativo, in quanto oggi si pone come un’alternativa al sistema economico e finanziario occidentale, dimostrando la sua forza e le sue solide basi, capaci di affrontare e di reggere gli scossoni delle turbolenze mondiali. Non è certamente il semplice divieto delle usure ad avere dato vita a un sistema peculiare come quello islamico, ma è tutto ciò che deriva da tale divieto che ha generato un modo di pensare e di vivere l’economia nel suo complesso in una maniera del tutto differente rispetto a quello occidentale. L’economia è un elemento essenziale delle società, siano esse orientali o occidentali. Essa muove e regola tutti i rapporti tra gli esseri umani. Fin dalla preistoria, i legami e i rapporti economici sono stati alla base dei rapporti tra gli individui, do ut des, e oggi l’analisi delle sue regole e dei suoi princìpi, della sua evoluzione e dei suoi divieti, può far comprendere molto del modo di essere e di pensare di una società. Oltre all’economia, l’altro elemento che ha caratterizzato la storia dell’uomo, le società - e che quindi è parte integrante della società contemporanea (per fortuna, oggi, laica) - è la religione, la religione monoteistica. Nell’Islam, la religione gioca, ancora oggi, un ruolo estremamente importante, soprattutto in ambito economico e bancario, poiché ha dato vita a un sistema che pone le sue regole sulle fonti coraniche e muhammadiche. Prima fonte per eccellenza è fuori di dubbio il Corano, il testo sacro, che scopriamo essere anche fonte insolita e basilare per comprendere l’anima dell’impostazione economica islamica: “A Lui [Dio] appartiene ciò che è nei cieli e ciò che è sulla terra” (Corano XLII, 4). Dio è dunque il proprietario dei beni presenti sulla Terra, mentre l’uomo ne è solo il legittimo usufruttuario o, meglio, l’usufrutto a cui il credente è delegato contiene, allo stesso tempo, un’ulteriore connotazione, sempre esplicata dal Corano, che fa dell’individuo un possessore - proprietario sottoposto a determinati obblighi. “Egli è Colui che ha fatto crescere giardini, vigneti a pergolato e senza pergolato, e palme, e cereali vari al mangiare, e olive e melograni simili e dissimili. Mangiate del frutto loro, quando vien la stagione, ma datene il dovuto ai poveri, il dì del raccolto, senza prodigalità stravaganti, ché Dio gli stravaganti non ama” (Cor. VI, 141). L’uomo ha pertanto ricevuto dalla divinità la concessione a possedere liberamente tutti i beni presenti sulla Terra e nei cieli, con l’unica clausola di rispettare determinati obblighi derivanti dalle regole divine di equità sociale e di solidarietà civile che si ritrovano anche alla base dei fondamenti dell’Islam. Dio ha previsto il necessario mantenimento di un equilibrio sociale basato sulla capacità di arricchimento di ciascuno e sulla libera proprietà privata, ma allo stesso tempo sulla necessaria redistribuzione delle ricchezze possedute con l’intera comunità. I fedeli, coloro che appartengono alla umma islamiyya, hanno il dovere di fronte a Dio di redistribuire parte delle proprie ricchezze (intese quali beni superflui e non necessari alla regolare esistenza) all’intera collettività. Ecco dunque la base solidaristica che ritroviamo in tutto l’Islam e in tutti i suoi aspetti cultuali, che si pone quale fondamento anche del sistema economico e finanziario. Da cui deriva che le banche islamiche, banche for profit a tutti gli effetti, operano tramite tutta una serie di strumenti finanziari e bancari basati su un principio solidaristico che nega l’iniquo arricchimento a danno di una parte. Probabilmente, è proprio grazie a questo spirito solidaristico, sul quale la dottrina islamica nel corso dei secoli ha stabilito e costituito i contratti commerciali che oggi si ritrovano anche nella normale operatività bancaria, che le banche islamiche sono riuscite a ritagliarsi uno spazio nel sistema bancario internazionale di tutto rispetto. Ed è per questo motivo che, oggi, esse vengono guardate dai Paesi occidentali come modelli da perseguire e imitare.


Lascia il tuo commento

Arrigo Borin - MILANO/ITALIA - Mail - lunedi 8 febbraio 2010 16.38
Mi chiedo come mai in quelle società così eticamente organizzate sia presente una enorme disparità economico sociale. Pochi detentori di richezze enormi (magari depositate in Svizzera) ed una gran massa di popolazione che stenta a trovare il minimo sostentamento per sopravvivere. Non credo sia necessario elencare i paesi islamici (praticamente tutti se escludiamo la Turchia) dove ciò accade; le relative immgini le abbiamo davanti tutti i giorni.
Quindi ritengo che il sistema in vigore nelle democrazie occidentali, anche se passibile di modifiche, sia ancora da preferire, e le modifiche possono essere apportate proprio perchè siamo in democrazia e le regole sono dettate sulla base di confronti che possono sempre cambiare, non su sure o dogmi inalterabili ed insindacabili nel tempo.
Antonio Moschitta - Foligno, Italy - Mail - venerdi 5 febbraio 2010 18.54
Mi associo ai complimenti, è una interpretazione interessante che non manca di fascino.
Carlo Cadorna - Frascati - Mail - mercoledi 3 febbraio 2010 16.52
Complimenti all'autrice per l'articolo colto ed interessante!!


 1