Dopo le rappresentazioni cinematografiche della scorsa stagione, con gli acclamatissimi ‘Gomorra’ di Matteo Garrone, ‘Il Divo’ di Paolo Sorrentino e ‘La ragazza del lago’ di Andrea Molaioli, Toni Servillo si racconta nel libro – intervista ‘Interpretazione e creatività nel mestiere dell’attore’ redatto dal giornalista Gianfranco Capitta ed edito da Laterza, in cui ha riflettuto intorno ai numerosi aspetti della propria professione confessando, altresì, il proprio desiderio di cimentarsi, in futuro, anche in ruoli comici. Abbiano perciò chiesto a questo nostro bravissimo attore di intervenire sul tema dell’interpretazione della creatività.
Toni Servillo, in questo libro - intervista appena uscito traspare il connubio, da lei definito ‘un triangolo erotico’, tra attore, testo e pubblico: lei si sente più un creativo o più un interprete?
“Io sono e rimango soprattutto un attore teatrale, attività che svolgo da 30 anni, più che un creativo: mi sento un interprete che vive una sorta di cosmopolitismo con il pubblico, una forma di nutrimento fra regia, teatro e libri. Dico interprete soprattutto perchè utilizzo il napoletano, la ‘lingua – dialetto’ con cui sono cresciuto e a cui faccio continuo riferimento anche per ‘arricchire’ l’italiano, che considero la mia lingua ‘acquisita’. In generale, non amo i provini: procedo per tentativi senza cercare un personaggio particolare per le mie interpretazioni. Non seguo nemmeno corsi o seminari, anche se spesso me lo chiedono e ne sono lusingato. Gli attori con cui lavoro mi dicono che avrei la vocazione, ma a me insegnare non interessa”.
Si parla tanto dell’esigenza di una nuova ‘creatività’ nel teatro, nel cinema, nell’arte e nella moda: ma è davvero creativa la giornata di un attore che prova e riprova la stessa scena fino alla fine della sua giornata? In sintesi, lei alla sera si porta a casa almeno una parte della sua creatività, oppure se la perde per strada?
“Ambedue le cose: la porto a casa e me la perdo per strada, dipende dalle giornate. Più che di creatività, io parlerei di lavoro e, come tutti i lavori, anche quello dell’attore possiede alcuni aspetti di ripetitività. Tuttavia, amo profondamente il teatro, in maniera direi ossessiva: è una dimensione con cui convivo anche quando non recito. Tuttavia, io non credo affatto che il momento più esaltante, per un attore, sia quello delle prove, bensì quello delle repliche, perché permettono un rapporto intimo con la quotidianità del personaggio. Inoltre, a teatro l’attore è responsabile e padrone di ciò che sta facendo, sia dei tempi, sia dei modi, mentre invece, quando si gira un film, è il regista ad anticipare ogni scena prima che l’attore ne abbia piena consapevolezza”.
Ho letto che si sente molto legato alle sue radici e, infatti, vive in provincia di Caserta: ha avuto qualche conflitto ‘emotivo’ nell’interpretare un personaggio complicato in ‘Gomorra’, sapendo che attraverso quel ruolo lei rappresentava un’Italia mafiosa, corrotta, allo sbando?
“Io ho scelto di vivere a Caserta, una decisione che, nel bene e nel male, è legata alla mia natura provinciale, dalla quale non voglio staccarmi, anche se di Napoli apprezzo, ad esempio, la capacità di azzerare qualsiasi sentimento di superiorità. In ogni caso, sono orgoglioso di aver girato ‘Gomorra’, un film straordinario diretto da un regista eccezionale quale Matteo Garrone. Effettivamente, si trattava di un’opera che raccontava il mondo della criminalità organizzata e un certo modo di fare politica. Dunque, eravamo molto preoccupati di rafforzare un determinato clichè, che rischiava di ‘congelare’ la platea internazionale. Invece, è scattato il meccanismo opposto: affrontando certe tematiche con un linguaggio inedito e originale siamo riusciti a capovolgere uno stereotipo, anche se i ragazzi di Scampìa, che nel film hanno interpretato se stessi, proprio in questi giorni stanno vivendo dei guai giudiziari e la stessa vita di Roberto Saviano non è di certo più la stessa…”.