Elisabetta Chiarelli

No, non è il nome di un programma di risanamento finanziario. Ci riferiamo, questa volta, ai giovanissimi concorrenti del talent ‘The Voice Kids’, in onda su Rai 1 il venerdì in prima serata e giunto ormai alla sua terza edizione. L’aspetto più rimarchevole nella personalità di questi ragazzi, di età prevalentemente compresa tra i dieci e i quattordici anni, se non più giovani, è il seguente: più che le indubbie doti canore, ciò che spicca è la loro incredibile maturità. Questa traspare dal loro modo di esprimersi, dai concetti che proferiscono, dalla sicurezza che comunicano nel comportamento. Pur denotando ansia, come è prevedibile che li assalga, essi mostrano di saper affrontare la sfida canora con sana sportività, capacità di autocontrollo e umiltà rispetto alle critiche. Al loro cospetto, ragazzi molto più adulti che partecipano ad altri talent scoloriscono per mancanza di temperamento, consapevolezza, capacità di reggere la tensione. Ci si chiede, pertanto, a cosa si deve questo incredibile 'scatto' generazionale: sicuramente, a un ottimo lavoro compiuto dai genitori e dagli educatori. Molti di questi ragazzi, infatti, in base a quanto raccontato nel corso del programma, sono stati cresciuti nella natura, a contatto con gli animali. Gli stimoli che hanno favorito la loro crescita non provengono dai beni di consumo o dal mero possesso delle ‘cose’ come in tanti bambini viziati, bensì da una sana esperienza del quotidiano, dall’apprendimento di giochi capaci di coniugare cultura e divertimento. Questi aspetti non collidono, tuttavia, con i vantaggi rappresentati da un uso corretto della tecnologia. Nell’era del digitale, essa può rappresentare un incredibile catalizzatore di crescita se utilizzata come risorsa integrativa - e non sostitutiva - della realtà, utile a sviluppare le potenzialità del quotidiano. Vedere questi bambini e preadolescenti crescere così bene è sicuramente consolatorio, rispetto a ciò che spesso vediamo nei nostri quartieri urbani: orde di dodicenni sbandati, che vagano senza meta, spesso a tarda sera. Il pensiero non può non andare ai loro genitori, che li aspettano a casa. E le domande che scorrono nella mente sono tante: ci si chiede se, effettivamente, a questi genitori interessi ciò che ai loro figli potrebbe accadere o se abbiano ancora un qualsiasi potere educativo su di loro; ci si chiede come gestiranno l’attesa del loro rientro, il timore di una chiamata della Polizia che annunci loro una disgrazia; ci si domanda dove sia quella "famiglia", la cui intoccabilità viene tanto ferocemente ‘urlata’, apologeticamente, da questi stessi genitori quando qualche insegnante o un ministro, oppure l’opinione pubblica denuncia l’orrore del 'bullismo' o della violenza nelle piazze durante le feste, i grandi eventi collettivi o le manifestazioni. E ci si rende conto che, più passa il tempo, più scegliere di diventare genitore sembra riservare lo stesso livello di rischio che si corre giocando alla 'roulette russa'. Il risultato, infatti, è al 50%: o ne esce un ‘mostro’ di insensatezza o un esempio di maturità. Ma anche in quest’ultima ipotesi, senz’altro più auspicabile rispetto alla prima, restano aperti degli interrogativi: se a 10 anni questi ragazzi denotano la saggezza di un trentenne, ci si domanda cosa ne sarà di loro quando 30 anni li avranno veramente. In un’epoca capace solo di partorire paradossi, in entrambi i casi c’è solo un grande assente: il lento e impagabilmente dolce sapore dell’infanzia vissuta dalle generazioni precedenti, pur tra luci e ombre, silenzi, scoperte, inevitabili dubbi o paure, cadute, errori, piccole vittorie, smarrimenti, timide gioie. Ma soprattutto, caratterizzata dal graduale forgiarsi dei sentimenti.


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