Risuona quanto mai attuale il monito di
Primo Levi a non dimenticare le brutalità della
persecuzione razziale, alla luce dei fatti avvenuti circa un mese fa nel
centro per disabili gestito dalla
Croce Rossa sulla
via Portuense a
Roma. Infatti, sono ancora in corso le
indagini per far luce sugli
orrori che il
personale sanitario pare abbia perpetrato ai danni degli
ospiti di questa
struttura. Si tratta dell’ennesimo episodio di
brutale violenza compiuta sui più
fragili e nelle
case di riposo, come troppo spesso avviene, o nei
centri di accoglienza e nelle
scuole materne. Di fronte a questi fatti, ci si chiede da dove nasca tutto questo
odio verso chi è
indifeso. E, soprattutto, perché le
istituzioni non abbiano introdotto
validi strumenti, per evitare che tutto ciò avesse luogo. Come può consumarsi un tale
abominio ai margini della nostra
vita quotidiana? E’ significativo come dalle indagini sia emerso che a scatenare la violenza degli abusanti fosse la
percezione d’invalidità dei pazienti loro affidati come un
ostacolo, un
fastidio per la loro
routine. Allora c’è da domandarsi quale fosse il
reale scopo della loro
esistenza, del loro
lavoro, se non quello di cercare di alleviare la
sofferenza altrui. Le risposte a questi interrogativi sono le seguenti: in primis, la
carenza abissale di una solida
formazione professionale e di
competenze radicate nell’esercizio dei mestieri. L’assenza di un
vaglio meritocratico nella preparazione al
mondo del lavoro ha generato una crescente
frustrazione, data dall’inadeguata canalizzazione delle risorse umane. Si perde, quindi, di vista il
fine, parafrasando l’efficace
espressione 'kantiana', per concentrarsi sul
'mezzo', finendo per considerare tale non solo
l’Altro, ma in primo luogo se stessi. Come evidenziato dal giornalista
Giovanni Floris, in un’intervista di qualche anno fa, ci troviamo a vivere in una
società che, nel pratico incedere dell’esistenza, si è
persa. Per cui, siamo condannati
all’infelicità, a non godere del nostro
impegno lavorativo quotidiano per i valori che porta con sé e per i quali dovremmo averlo scelto una professione, per ripiegare su una
grigia routine, con il solo obiettivo dello
stipendio a fine mese. Potrebbe esser questa la causa che spinge verso una
non responsabilità, che degenera in chi è propenso al
crimine e
all’abuso nei confronti di coloro che, con la propria
fragilità fisica o
psichica, diventano lo
'specchio' della propria
colpevole impotenza e, in tutti gli altri, di
un’indifferenza ancora più
ripugnante. “Sono forse io, il custode di mio fratello”? Oppure:
“Non sono responsabile di questo sangue”. Sono queste le parole proferite
nell’Antico e nel
Nuovo Testamento, rispettivamente da
Caino e
Ponzio Pilato, pur a distanza di millenni l’uno dall’altro. A dimostrazione di come, nel corso del tempo, le cose non siano cambiate: si dà la colpa alla
società, che degrada sempre di più nel non funzionamento delle sue istituzioni; oppure
all’economia; oppure ancora alla
scarsa offerta di
opportunità lavorative. Senza considerare che la
società non è altro che lo specchio di ciò che siamo:
un’umanità in perenne contraddizione.