Vittorio CraxiEsauriti gli aggettivi superlativi con i quali è stata circondata, per quasi un anno, la nuova guida del Governo italiano, sta arrivando a passi spediti l’ora di un giudizio elettorale e di un primo reale ‘tagliando’ sul consenso reale che essa é riuscita a consolidare dopo il lungo periodo di apprendistato. Sarà quindi il voto decisivo per l’Europa a qualificare e stabilire se quello di fronte al quale ci troviamo sia un quadro politico di lungo periodo, che s’inscrive con l’avanzata delle destre moderate in occidente e delle autocrazie nel mondo o se la particolare mobilità e pluralismo della società italiana contiene ancora degli anticorpi, necessari per evitare che esso, in mancanza di reali alternative, si trasformi in una sorta di nuovo e duraturo regime dello stato delle cose. Giorgia Meloni ha fallito su diversi terreni e sembra sopravvivere alla giornata, seppur sola al comando. La scomparsa di Silvio Berlusconi, lo scomposto tentativo di riprendere spazio di Matteo Salvini, la inconsistente e autolesionistica postura di Fratelli d’Italia, la rafforzano nei propri poteri e nella sua centralità politica. In teoria, una condizione perfetta per consolidare una prospettiva di lungo periodo, nel quale incarnare una fusione di elementi che, sebben incompatibili, appaiono, da lei interpretati, possibili: il sovranismo nazionale e la cieca obbedienza atlantica, l’esaltazione di confini e frontiere dentro il quadro più largo di un’Europa della Nazioni, che non si trasforma in continente federato. Questo sulla carta. Il realismo e i fatti hanno, tuttavia, dimostrato altro. In assenza di un reale e praticabile disegno strategico-politico ed economico per la società italiana, sono passati mesi nei quali l’impressione che ha dato é quella di vivere alla giornata, difettando nel realismo e abbandonando, gradualmente, le parole d’ordine della propria campagna elettorale: punti cardinali attorno ai quali si è registrata la disfatta più vistosa. Innanzitutto, sull’immigrazione, dove al “blocco navale” si è opposta la più robusta ondata di ingressi clandestini e anche di quelli regolari, richiamati dall’esigenze dell’economia italiana; sul fisco, dove nonostante il titolo roboante del disegno di delega, il Governo ha dovuto fare i conti con il realismo, che prevede una minore entrata del gettito e una difficile applicazione di ‘tasse piatte’ che non determinino una prevedibile iniquità. All’abbattimento delle misure di sostegno sociale e degli incentivi per l’adeguamento delle nostre abitazioni agli standard richiesti dai parametri stabiliti dalla transizione ecologica, si é fatto fronte con alcuna misura, lasciando centinaia di aziende del settore edilizio collassare per i crediti fiscali inesigibili e i poveri che percepivano il reddito di cittadinanza, innanzitutto anziani e single, canzonati da una misura, quella della carta “Dedicata a te”, che li esclude dal percepimento. I ritardi della acquisizione delle quote del Pnrr e lo slittamento del Mes, utilizzato come metro propagandistico per segnare il proprio distacco dal circuito europeo, sono una sorta di Caporetto della politica economica del Governo, che tutto appare tranne che fondata su un realismo politico che pure era sembrato, all’inizio, orientare le scelte di Giorgia Meloni: su tutte, la posizione in difesa della sovranità ucraina, a dispetto dei propri alleati di Governo, tradizionali amici e alleati di Vladimir Putin. Una posizione quest’ultima che, tuttavia, cerca di ritagliarsi più che un ruolo politico e strategico fondato su una reale ricerca di dialogo, nella reciprocità degli interessi, con l’altra sponda del Mediterraneo, in linea con la tradizione italiana post-bellica, sembra fare una eco piuttosto sgradevole alle tradizioni peggiori del post-colonialismo incapace di comprendere i movimenti di reale trasformazione delle società arabe negli ultimi trent’anni. Se lo scontro con la magistratura sembra forzosamente voler replicare, in farsa, il duello che ha opposto la politica democratica alle gerarchie del potere giudiziario alla fine degli anni ‘90 (duello nel quale la destra di Giorgia Meloni, giustizialista, si è sempre schierata a fianco delle toghe) e se l’occupazione sistematica del potere pubblico non modifica di una virgola il modello sin qui tenuto da tutte le forze che si autodefinivano di cambiamento - e che null’altro sono se non una pallida imitazione dei tempi andati - l’impressione che si ha é che siamo di fronte a un’ennesima prova maldestra di cancellare la reale entità della crisi del sistema politico italiano e delle sue classi dirigenti, con un modello ‘a cavallo’ fra il continuismo conservatore e un populismo di conio europeo, dove si uniscono elementi e di neo-tradizionalismo religioso al ‘messianesimo’ da cui sono circondati i leader, la cui ascesa repentina al potere è pari alla loro discesa. Sarà questo lungo anno di campagna elettorale a testare la fibra di Giorgia Meloni e a rivalutare la capacità di reale alternativa delle forze che, definendosi di progresso, si attardano in difesa di posizioni che fotografano l’inadeguatezza dell’esistente, ma non riescono a costruire un progetto di governo che si inserisca nelle reali contraddizioni della destra. Una lunga sfibrante campagna attende l’Italia.





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