Il
17 marzo scorso si è tenuto un importante
convegno sul tema
dell’immigrazione presso la
parrocchia San Pio X in
Roma. I contributi culturali al dibattito sono stati diversi: uomini e donne di Stato e delle Capitanerie portuali, nonchè provenienti dall’ambiente religioso, hanno fornito una
testimonianza fondamentale nell’attestare la complessità di un tema che, al di là di ogni retorica, pone un problema
nevralgico: il rapporto con il
diverso. Ma
diverso da chi, verrebbe da
chiedersi? Non si riesce mai a comprendere fino in fondo che cosa s’intenda con la frase
"paura del diverso". Inizialmente, tale espressione
fa sorridere, considerando che la
diversità rappresenta la
normalità: nessuno è
uguale all’altro. E pretendere di
appiattire le differenze è pura
follia omologativa. Eppure, è questa la
malattia che affligge da decenni la società moderna, come se l’impennata di
sviluppo tecnologico e
consumistico che ha caratterizzato in particolare gli ultimi quarant’anni, avesse generato nel tessuto sociale
un’ansia incalcolabile di
categorizzare tutto. Inoltre, ogni
consesso umano si differenzia in base alle proprie intrinseche caratteristiche. E non tutte le
realtà nazionali sono, in sé per sé, capaci di assorbire grandi e repentini
cambiamenti, come se questi ne esprimessero la
naturale evoluzione. E’ veramente sconcertante constatare che, nonostante l’abolizione degli
studi di settore, per esempio in ambito tributario, i quali tendono a omologare, a fini fiscali,
realtà imprenditoriali diverse, persista nei rapporti interpersonali e nella selezione del
merito ancora una radicata tendenza a sopprimere ogni forma di
originalità. In una società in cui si fa fatica a pronunciare la parola
merito, temendo che essa sia sinonimo di
discriminazione, si ignora che la
valorizzazione delle differenze costituisce il nucleo centrale del
principio di uguaglianza. Ma non c’è uguaglianza senza
ragionevolezza, come recita infatti la
Costituzione italiana al
secondo comma dell’articolo 3. Se non si concepiscono trattamenti normativi e interventi sociali
differenziati, in rapporto alle varie problematiche presenti nella collettività, non potra’ mai conseguirsi una piena
tutela delle numerose esigenze caratterizzanti la vita degli
individui. E’ necessario, quindi, che
lo Stato torni a dialogare con il
singolo. La
crisi della meritocrazia, seguita anche alle contestazioni
‘sessantottine’, non correttamente canalizzate in un’effettiva
rivoluzione culturale che scardinasse i baluardi di una
classe dirigente atrofizzata, per sostituirla con un
sistema formativo realmente interessato a sondare e a premiare l’effettiva
capacità dei singoli, ha prodotto il consolidarsi
dell’omologazione, anciché il suo superamento.
Pier Paolo Pasolini definiva tale processo:
“Un nuovo fascismo”. Non stupisce, quindi, che in questo
clima culturale un tema così complesso come quello della gestione dei
flussi migratori sia destinato a non ricevere mai una
corretta trattazione. Come evidenziato dal
cardinale Francesco Montenegro, Arcivescovo di
Agrigento, il quale, in base alle stime degli esperti,
“sarebbe possibile, allo stato attuale, configurare un sesto continente, costituito dalla moltitudine di migranti dislocati in tutto il pianeta”. Il cardinale si è domandato, quindi, come fosse possibile
“concepire il mondo odierno senza questa componente”. E richiamandosi, forse involontariamente, al pensiero di
Voltaire e di
Pasolini, ha affermato che
“non può parlarsi oggi di integrazione, bensì di tolleranza. Ovvero, l’accettazione condizionata al fatto che l’altro non ci infastidisca, non destabilizzi in alcun modo le nostre fragili certezze”. E’ desolante constatare come questa
cultura della discriminazione, diretto portato
dell’omologazione sociale, abbia ormai inesorabilmente condizionato le
relazioni interpersonali. Ha rammentato con dispiacere il
cardinale Montenegro che, recatosi in un bar con un immigrato, il cameriere avesse con naturalezza servito il caffé al religioso in una tazzina di porcellana e al giovane straniero
“in un bicchiere di carta”. Il suo intervento si è poi concluso, ricordando che tutte le volte in cui si respinge con
diffidenza un immigrato, si ripropone, dopo oltre duemila anni, il dramma di
Gesù bambino, nato in una
mangiatoia poichè
non accolto da nessuno. La
solidarietà come valore umano, che lega le vite degli uomini a prescindere dalla loro provenienza, è riecheggiata anche nelle parole
dell’Ammiraglio Giovanni Pettorino, Comandante generale del corpo delle
Capitanerie di porto. Questi, nel ricordare le importanti missioni a cui ha preso parte e che hanno visto la
Guardia costiera italiana in prima linea nella gestione dei flussi migratori, ha citato l’emozionante storia del
comandante Todaro, narrata dagli scrittori
Sandro Veronesi ed
Edorado De Angelis nel romanzo intitolato:
‘Il comandante’ (Bompiani, 2023). Questo personaggio storico, infatti, dopo aver affondato, durante la seconda guerra mondiale,
un’imbarcazione nemica, ne aveva tratto in salvo i
marinai dal naufragio. E alle parole di rimprovero dell’ammiraglio tedesco,
Karl Donitz, rispose a giustificazione della propria condotta che
“tra noi italiani e voi esistono almeno duemila anni di civiltà”. L’esempio del
comandante Todaro può essere considerato un
'faro' non solo per comprendere la giusta
postura da imprimere alle
relazioni con l’Altro, sia o meno della nostra stessa nazionalità, ma rappresenta anche il prototipo
dell’homo publicus. In lui, la compresenza della
finalità rieducativa e
retributiva della
pena, scolpita
all’articolo 27 della
Costituzione italiana, è infatti pienamente rispecchiata. Se, quindi, la
finalità dell’agere pubblico è il perseguimento
dell’interesse comune e
l’affermazione della verità, il rispetto dei
valori umani non è un mero
incidente di percorso, ma il
cuore stesso di quella
funzione, nonchè principale garanzia
dell’ottimalità del
'risultato'. L’esercizio della
funzione pubblica non deve intendersi semplicemente come una
sequenza di atti, ma come il risultato della
partecipazione di più persone, sia che si tratti di un
processo o di
un’azione amministrativa, sia di qualsiasi altro intervento di
rilevanza pubblicistica. Deve essere un
perimetro in cui si riafferma una particolare
attitudine nel concepire le
relazioni interpersonali. In cui, per citare
Immanuel Kant, l’essere umano non sia considerato come un
mezzo, ma come un
fine.