Elisabetta ChiarelliIl 17 marzo scorso si è tenuto un importante convegno sul tema dell’immigrazione presso la parrocchia San Pio X in Roma. I contributi culturali al dibattito sono stati diversi: uomini e donne di Stato e delle Capitanerie portuali, nonchè provenienti dall’ambiente religioso, hanno fornito una testimonianza fondamentale nell’attestare la complessità di un tema che, al di là di ogni retorica, pone un problema nevralgico: il rapporto con il diverso. Ma diverso da chi, verrebbe da chiedersi? Non si riesce mai a comprendere fino in fondo che cosa s’intenda con la frase "paura del diverso". Inizialmente, tale espressione fa sorridere, considerando che la diversità rappresenta la normalità: nessuno è uguale all’altro. E pretendere di appiattire le differenze è pura follia omologativa. Eppure, è questa la malattia che affligge da decenni la società moderna, come se l’impennata di sviluppo tecnologico e consumistico che ha caratterizzato in particolare gli ultimi quarant’anni, avesse generato nel tessuto sociale un’ansia incalcolabile di categorizzare tutto. Inoltre, ogni consesso umano si differenzia in base alle proprie intrinseche caratteristiche. E non tutte le realtà nazionali sono, in sé per sé, capaci di assorbire grandi e repentini cambiamenti, come se questi ne esprimessero la naturale evoluzione. E’ veramente sconcertante constatare che, nonostante l’abolizione degli studi di settore, per esempio in ambito tributario, i quali tendono a omologare, a fini fiscali, realtà imprenditoriali diverse, persista nei rapporti interpersonali e nella selezione del merito ancora una radicata tendenza a sopprimere ogni forma di originalità. In una società in cui si fa fatica a pronunciare la parola merito, temendo che essa sia sinonimo di discriminazione, si ignora che la valorizzazione delle differenze costituisce il nucleo centrale del principio di uguaglianza. Ma non c’è uguaglianza senza ragionevolezza, come recita infatti la Costituzione italiana al secondo comma dell’articolo 3. Se non si concepiscono trattamenti normativi e interventi sociali differenziati, in rapporto alle varie problematiche presenti nella collettività, non potra’ mai conseguirsi una piena tutela delle numerose esigenze caratterizzanti la vita degli individui. E’ necessario, quindi, che lo Stato torni a dialogare con il singolo. La crisi della meritocrazia, seguita anche alle contestazioni ‘sessantottine’, non correttamente canalizzate in un’effettiva rivoluzione culturale che scardinasse i baluardi di una classe dirigente atrofizzata, per sostituirla con un sistema formativo realmente interessato a sondare e a premiare l’effettiva capacità dei singoli, ha prodotto il consolidarsi dell’omologazione, anciché il suo superamento. Pier Paolo Pasolini definiva tale processo: “Un nuovo fascismo”. Non stupisce, quindi, che in questo clima culturale un tema così complesso come quello della gestione dei flussi migratori sia destinato a non ricevere mai una corretta trattazione. Come evidenziato dal cardinale Francesco Montenegro,  Arcivescovo di Agrigento, il quale, in base alle stime degli esperti, “sarebbe possibile, allo stato attuale, configurare un sesto continente, costituito dalla moltitudine di migranti dislocati in tutto il pianeta”. Il cardinale si è domandato, quindi, come fosse possibile “concepire il mondo odierno senza questa componente”. E richiamandosi, forse involontariamente, al pensiero di Voltaire e di Pasolini, ha affermato che “non può parlarsi oggi di integrazione, bensì di tolleranza. Ovvero, l’accettazione condizionata al fatto che l’altro non ci infastidisca, non destabilizzi in alcun modo le nostre fragili certezze”. E’ desolante constatare come questa cultura della discriminazione, diretto portato dell’omologazione sociale, abbia ormai inesorabilmente condizionato le relazioni interpersonali. Ha rammentato con dispiacere il cardinale Montenegro che, recatosi in un bar con un immigrato, il cameriere avesse con naturalezza servito il caffé al religioso in una tazzina di porcellana e al giovane straniero “in un bicchiere di carta”. Il suo intervento si è poi concluso, ricordando che tutte le volte in cui si respinge con diffidenza un immigrato, si ripropone, dopo oltre duemila anni, il dramma di Gesù bambino, nato in una mangiatoia poichè non accolto da nessuno. La solidarietà come valore umano, che lega le vite degli uomini a prescindere dalla loro provenienza, è riecheggiata anche nelle parole dell’Ammiraglio Giovanni Pettorino, Comandante generale del corpo delle Capitanerie di porto. Questi, nel ricordare le importanti missioni a cui ha preso parte e che hanno visto la Guardia costiera italiana in prima linea nella gestione dei flussi migratori, ha citato l’emozionante storia del comandante Todaro, narrata dagli scrittori Sandro Veronesi ed Edorado De Angelis nel romanzo intitolato: ‘Il comandante’ (Bompiani, 2023). Questo personaggio storico, infatti, dopo aver affondato, durante la seconda guerra mondiale, un’imbarcazione nemica, ne aveva tratto in salvo i marinai dal naufragio. E alle parole di rimprovero dell’ammiraglio tedesco, Karl Donitz, rispose a giustificazione della propria condotta che “tra noi italiani e voi esistono almeno duemila anni di civiltà”. L’esempio del comandante Todaro può essere considerato un 'faro' non solo per comprendere la giusta postura da imprimere alle relazioni con l’Altro, sia o meno della nostra stessa nazionalità, ma rappresenta anche il prototipo dell’homo publicus. In lui, la compresenza della finalità rieducativa e retributiva della pena, scolpita all’articolo 27 della Costituzione italiana, è infatti pienamente rispecchiata. Se, quindi, la finalità dell’agere pubblico è il perseguimento dell’interesse comune e l’affermazione della verità, il rispetto dei valori umani non è un mero incidente di percorso, ma il cuore stesso di quella funzione, nonchè principale garanzia dell’ottimalità del 'risultato'. L’esercizio della funzione pubblica non deve intendersi semplicemente come una sequenza di atti, ma come il risultato della partecipazione di più persone, sia che si tratti di un processo o di un’azione amministrativa, sia di qualsiasi altro intervento di rilevanza pubblicistica. Deve essere un perimetro in cui si riafferma una particolare attitudine nel concepire le relazioni interpersonali. In cui, per citare Immanuel Kant, l’essere umano non sia considerato come un mezzo, ma come un fine.





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