In questi giorni, si celebra il
centenario della nascita di
Benito Jacovitti, geniale
fumettista del secolo scorso, a cui il
Museo Maxxi di
Roma ha voluto dedicare una prestigiosa
‘mostra-tributo’. Egli era nato a
Termoli (Cb), il
9 marzo 1923, da
padre ferroviere e operatore cinematografico e
madre di
origini albanese. All'età di
7 anni iniziò a mostrare interesse per i
fumetti. Ancora bambino, si trasferì con la famiglia prima a
Macerata e, in seguito, a
Firenze, dove frequentò
l’Istituto statale d’arte. Nel
1939, ancora sedicenne, esordì come
autore pubblicando vignette umoristiche per la rivista satirica fiorentina
‘Il brivido’: si trattava delle prime tavole umoristiche
a pagina intera, di cui la prima, intitolata
‘La linea Maginot’, ironizzava sulla
guerra. Nel
1940, disegnò la
‘striscia’ a fumetti
‘Pippo e gli inglesi’, che gli procurò la collaborazione, quasi trentennale, con il settimanale
‘Il Vittorioso’, edito dalla casa editrice cattolica
‘Ave’, che l'avrebbe ben presto fatto conoscere a tutti. La collaborazione con
‘Il Vittorioso’ ebbe termine alla chiusura del periodico, nel
1970. Ma fu un
trentennio di successi e di
risate per il suo stile
buffo, ma
irresistibile, che lo portò a firmare le sue tavole con una
‘lisca di pesce’ a causa del suo fisico esile, che aveva indotto la redazione a soprannominarlo proprio così. Sempre per la
‘Ave’ cominciò, nel dopoguerra, a realizzare una serie di
diari scolastici che ben presto diventarono veri e propri oggetti di culto: il
‘Diario Vitt’ divenne un’attesissima pubblicazione annuale, con vignette, illustrazioni e fumetti interamente realizzati dall'autore e stampati fino al
1980, quando, a seguito della pubblicazione di un'opera con leggere
sfumature erotiche, s’interruppe la collaborazione con l'editore, di ispirazione
cattolica. Sì, perché
Jacovitti, negli
anni ’50 e
‘60 del secolo scorso, fu tra quegli artisti che iniziarono a
scompaginare ogni piano di
irrigimentazione cattolica della
formazione culturale giovanile. In quei decenni, infatti, il
genere fumettistico divenne inaspettatamente
vincente, risultando un veicolo eccezionale di
lettura facile e
divertente. Subito, le
gerarchie cattoliche cercarono di debellarli, ora teorizzando interventi a
‘colpi di forbice’, ora investendo il mondo politico italiano di
anatemi e di inviti a
battaglie ‘campali’. Secondo
Luigi Volpicelli, i
fumetti nascevano
“con la pistola in mano”, poiché non riuscivano a disincagliarsi dalla rete di
violenza e di
sadismo che li rendeva allettanti, in quanto
‘figliastri’ dell’arte cinematografica, sulle cui nulle potenzialità didattiche il giudizio, per lungo tempo, fu
inappellabile. Ma per la
cultura cattolica si trattò di una
sconfitta micidiale, clamorosa, causata da un
cipiglio conservatore che riuscì solamente a sottostimare le grandi capacità artistiche di alcuni disegnatori italiani. Tra cui, appunto, quelle del
‘delirante’ Jacovitti, con le sue tavole affastellate di
surreali lische di pesce e
assurdi salami tagliati a metà. Dopo il
’68, la fama di
Jacovitti esplose letteralmente
anche a sinistra, con i suoi personaggi a prima vista
un po’ strambi che tuttavia, nei momenti decisivi, si trasformavano in veri e propri
eroi. Come
Cocco Bill, per esempio: un personaggio ambientato nel
mondo western - allora di moda nel mondo del cinema americano d’importazione - il quale, pur attraverso
goffaggini e
intuizioni bislacche, alla fine riusciva a sgominare sempre i
manigoldi che imperversavano nella sua
contea. Ma i protagonisti delle sue tavole furono tantissimi:
la signora Carlomagno, l’onorevole Tarzan, Gionni Galassia e il giornalista-detective,
Tom Ficcanaso. Il grande
Jacovitti cominciò a essere apprezzato anche dalla
critica letteraria di sinistra, benché fosse un
uomo di destra. Dopo un
‘remake’ a fumetti del
‘Pinocchio’ di
Collodi, il critico
Gianni Brunoro scrisse:
“Solo Benito Jacovitti, ben noto con gli pseudonimi Lisca di Pesce o anche Jac, obbedì più di una volta al richiamo di questa chimera narrativa (il ‘Pinocchio’ di Carlo Collodi, ndr), ricreando ogni volta ex novo la visuale del proprio approccio. La sua fu una lunga e originale avventura, protrattasi per quasi quarant'anni”. Anche le sue
soluzioni grafiche cominciarono a influenzare disegnatori come
Georges Wolinski, che ebbe a scrivere, nel numero di
gennaio 1974 della rivista progressista
‘Linus’: “Jacovitti in libertà, senza le pastoie della stampa per ragazzi, è un qualcosa di enorme”. Strepitose, inoltre, alcune sue battute incise nelle
‘nuvole’ dei suoi personaggi: dei veri e propri
‘nonsense’ in stile
tardo-futurista, che divennero dei
‘tormentoni’ per i giovani di allora. Come la famosa e surreale:
“Lascia l’ascia e accetta l’accetta”, apprezzatissima a
sinistra, perché colse la contraddizione di un
pacifismo unilaterale filo-comunista, in totale conflitto con lo
spirito protestatario ed
extra-parlamentare di quegli anni. In un'intervista di
fine anni '70, il geniale
Jacovitti giunse a confessare le costrizioni della
censura sul suo lavoro giovanile, che giunse a imporgli delle
figure femminili asettiche, in perfetta antitesi con la sua tendenza a esagerarne gli
attributi fisici, da amante delle
‘maggiorate’ quale era. E nel
1991, l’amico
Giorgio Medail sul
‘Corriere della sera’ confermò:
“La sinistra ha finalmente riabilitato Benito Jacovitti”. Scomparve a
Roma alla fine del
1997, poche ore prima dell’amatissima moglie,
Floriana Jodice.