Carl Gustav Jung sosteneva che
“quando il diavolo intende torturare un’anima, la pone in attesa”. E’ dunque veramente strano come tale
concetto assuma connotazioni sempre diverse
nell’iconografia cristiana e
nell’immaginario collettivo. Attesa, infatti, significa tensione verso qualcosa spesso di
irraggiungibile, ma che abbiamo bisogno di
sperare sia possibile, per dare senso alla nostra esistenza. Di recente, siamo rimasti colpiti da un paio di articoli sull’argomento. In uno di essi, un noto scrittore parlava della sua
smania di perfezionismo, di come questa avesse condizionato la sua
prima giovinezza. Una
tensione verso l’assoluto, che aveva finito per
logorare il suo
equilibrio psicologico, la sua
autostima. Viceversa, un
mistico parlava
dell’attesa traendo le mosse dall’esperienza della
Vergine Maria consegnataci dalle scritture. Un’esperienza di
affidamento totale nella possibilità di compiere l’impossibile,
“poiché”, ricordava lo scrivente,
“il possibile è consegnato all’opera dell’imprenditore, l’impossibile a quella del sognatore”. Ma in questo tempo così particolare, propedeutico alla
nativita’ cristiana, sorge un dubbio. E se ciò che ci illuminasse,
quest’attesa dell’impossibile, di quello che neanche osiamo immaginare, fosse invece un qualcosa di
tenebroso? E se questo guardare sempre
al di fuori di noi stessi ci stia, in realtà, sottraendo quanto di più
prezioso la vita ci abbia consegnato, cioè il
presente? Forse, siamo troppo abituati a
rimandare la felicità, mentre
Lev Tolstoj diceva che,
se vogliamo essere felici, dobbiamo cominciare a esserlo
nel momento stesso in cui
lo desideriamo. Le nostre
aspettative, ovvero le nostre
‘attese’, non fanno mai i conti con
l’imprevedibilità della vita e la
mutevolezza degli eventi. Pertanto, ciò che più sentiremmo di chiedere veramente, per questo
Natale ormai alle porte, è il dono di
saper vivere a pieno il presente, la
quotidianità che ci viene offerta ogni giorno. Chiediamo che le nostre anime, spesso inquiete, trovino pace nella
valorizzazione degli attimi, dei
piccoli gesti, delle
piccole attenzioni per noi stessi e
per gli altri. Perché nel contemplare il
mistero della natività, si guarda ben poco all’esempio della
Vergine Maria, che nel silenzio della sua anima coltivava la difficile arte
dell’affidamento e serbava con gratitudine nel suo cuore ogni
insegnamento, ogni
emozione le venisse offerta. Forse, la vita è anche questo.
Affidamento: lasciarsi un po’ andare al
fluire degli eventi, al concatenarsi imprevedibile delle circostanze, che ci guidi come un condottiero misterioso verso la realizzazione della nostra più vera e profonda
identità. Forse, come da qualche parte ci pare di aver letto,
“la bellezza profonda dell’esistere non consiste nel protendersi, sempre e comunque, verso qualcosa, ma sostare, piuttosto, nella consapevolezza di non aver nulla da chiedere”. E forse, la parola che, soprattutto a
Natale, si dovrebbe proferire di più non è
“speranza” o
“desiderio”, bensì
“ringraziamento”.