Siamo concordi con le tesi espresse di recente da
ilPost.it, il quotidiano on line diretto da
Luca Sofri: non possiamo più ritenere i
‘talk show’ un luogo di dibattito pubblico o di reale
approfondimento giornalistico. Sia sulle vicende della
guerra in Ucraina, sia per quelle relative alla pandemia da
Covid 19, troppo spesso alcune tesi, palesemente
false, sono state poste sul medesimo piano dei
fatti accertati e
verificati. Non si sta facendo
buona informazione, bensì
intrattenimento ‘circense’. Una distorsione che poi si riversa sui
social network e che finisce con l’investire violentemente proprio coloro che cercano di fare il proprio
dovere. La questione comincia, insomma, ad assumere un proprio
peso deontologico molto serio, poiché non si interpretano più i fatti da diversi punti di vista, bensì prevale
l’opinione personale degli ospiti, in una logica di
spettacolarizzazione televisiva. E per quanto riguarda tutto ciò che è accaduto durante la durissima
fase pandemica, il
dato scientifico non era da considerare, nella stragrande maggioranza dei casi, come un
elemento opinabile, da confondere o addirittura sottoporre al vaglio di altre
categorie professionali. Anche perché, in campo scientifico, spesso si trattava di
dati relativi inseriti in un
contesto ben preciso, che non consentiva
‘incroci’ di nessun genere: professioni come quelle di un
medico o di un
virologo hanno molto a che fare con
l’etica della scienza e non possono vedersi
‘sintetizzate’ con coordinate appartenenti ad altri
'campi' o utilizzate per generare semplici
contrapposizioni ideologiche. La tendenza rimane quella di un’eccessiva
'polarizzazione', ormai divenuta
soverchiante rispetto alla
divulgazione o alla semplice
funzione informativa. Anche le lamentele di molti
inviati di guerra che stanno rischiando la vita per fornire solo
fatti accertati e
verificati e che si ritrovano coinvolti in
polemiche stucchevoli, con informazioni totalmente
falsate o
propagandistiche, ci appaiono più che
fondate. Tutto questo discende dalle tendenze televisive degli
anni ’80 del secolo scorso, in cui si teorizzò il cosiddetto
‘infotainment’, ovvero
l’intrattenimento del pubblico posto a sintesi con
l’approfondimento. Una formula assai
equivoca, che ha generato molti
danni, anche se a molti appaiono
limitati, dato che in seguito alla polemica sui
vaccini, alla fin fine la gran parte degli italiani si è sottoposta al
trattamento sanitario e non ha creduto alle
menzogne – e spesso all’incompetenza – dei tanti
‘uccelli del malaugurio’ che hanno affollato i
‘parterre’ televisivi, in tutte le ore del giorno e della notte. Insomma, tutto sommato la questione sembra sempre
marginale, ma non lo è affatto: quanto accaduto dovrebbe condurci a una
riflessione ben più seria, non trattandosi di
duelli tra
schieramenti politici o di
rivalità sportive, come ai tempi di
Aldo Biscardi. Anzi, quel che è apparsa evidente è stata
l’aderenza, se non proprio
l’estrazione di peso, di alcuni
schematismi generalmente utilizzati in politica o nelle notizie sportive, applicati
'sic et simpliciter' in settori e territori dove tali modalità
non erano affatto adatte. Dunque, la questione andrebbe posta diversamente: come s’intende cambiare questo
modello televisivo ‘generalista’ e
superficiale, che inganna il pubblico chiudendolo in uno
scetticismo ‘pasticcione’ e
‘clownesco’, che
crea problemi anziché
denunciarli? A nostro parere, comincia a delinearsi l’urgenza di un effettivo
salto di qualità. Soprattutto in
campo scientifico, ma anche in quello più strettamente
giornalistico, dove non solo si confondono diabolicamente le
menzogne con i
fatti reali, ma addirittura si finisce col generare
sfiducia nei confronti di chi
lavora in prima linea, siano essi
medici o
inviati di guerra. Il paradosso è quello di dover sentir dire che non c’è un
oligopolio di editori che, probabilmente,
non sanno fare gli editori, bensì quello di un
giornalismo ‘mainstream’ scarsamente democratico, compattamente
schiacciato, come un sol uomo, sul cosiddetto
‘pensiero unico’. Si tratta di un
rovesciamento eversivo, non mediato dal alcun
‘filtro’ di
selezione qualitativa, da alcuna coordinata realmente seria di
professionalità. E’ un po’ come se una persona
informata sui fatti interrogasse lui il
commissario di polizia o il
magistrato che sta indagando su un determinato crimine. Tutto questo
non va affatto bene e ci dispiace doverlo
registrare: secondo noi,
fare informazione è
tutta un’altra cosa. A prescindere dalle distinte
‘parrocchie’ editoriali esistenti sul mercato.