Il
20 marzo 2022, il
presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, ha annunciato la
sospensione di
11 Partiti di sinistra, accusati di essere
filorussi e
l’accorpamento delle reti televisive in un
unico canale, per tutta la durata della
legge marziale attualmente in vigore. Una decisone, questa, che stride fortemente con quell’immagine di
democrazia occidentale, paradigma della nostra civiltà, che rischia di squalificare la narrazione del conflitto di un
Paese democratico (seppur con tutte le sue criticità) contro un invasore dal
regime dittatoriale. La questione, tuttavia, è ben più complessa di quello che sembra. E non ci si può limitare a una superficiale indignazione per la decisione di
Zelensky urlando a pieni polmoni domande retoriche quali:
“E’ questa la democrazia di cui andiamo tanto fieri in occidente”? E’ del tutto evidente, infatti, che le normali
categorie interpretative di cui disponiamo sono insufficienti, in situazioni complicate come la guerra tra
Russia e
Ucraina, la quale nasce da tensioni di origine storica e geopolitica. Il punto di non ritorno tra le due nazioni si è avuto tra la fine di
novembre 2013 e il
febbraio 2014, con le sollevazioni popolari
dell’Euromaidan ('Euro', inteso come abbreviazione di
Europa, mentre il suffisso
‘Maidan’ si riferisce a
Majdán Nezaléznosti, in italiano:
piazza dell'Indipendenza, il piazzale principale di
Kiev, dove si concentrarono le proteste iniziali,
ndr), che vengono impropriamente
‘narrate’ da più parti come un
‘golpe’ orchestrato da
Usa, Nato e
Unione europea ai danni del
governo filorusso di
Viktor Yanukovich. In realtà, le
prove in merito alle ingerenze esterne sono alquanto
relative: le sollevazioni popolari non furono affatto
'pilotate' come la
propaganda russa ha voluto far credere e il popolo ucraino aveva mille ragioni per ribellarsi data la corruzione, l’inerzia del parlamento, un’economia povera e condizioni sociali precarie. Insomma, il malcontento dei cittadini era un qualcosa di reale e tangibile, tanto che le
‘intelligence’ di più Paesi hanno sempre parlato di una protesta generata da
“cause ed errori politici di diversa provenienza” e di aspettative alimentate
dall’interno del Paese e non
dall’esterno. La causa principale delle proteste era la sospensione degli
accordi di libero scambio con
l’Unione europea, decisa dal governo di
Viktor Yanukovich, il quale inizialmente aveva
avvicinato volontariamente il Paese all’occidente. Il piano di adesione a lungo termine avrebbe visto
l'Ucraina avvicinarsi
all'Unione europea in base a una serie di
standard sociali/industriali prima di poter entrare ufficialmente
nell'Ue. C’è da dire che buona parte
dell'Ucraina era
‘pro-Ue’, mentre contrarie erano le popolazioni russofone a est e nel
Donbass, insieme alla grande maggioranza della
Crimea. Pertanto, dopo essere stato minacciato dal presidente russo,
Vladimir Putin, delle conseguenze che avrebbe comportato
l’avvicinamento dell’Ucraina all’occidente, con un ripensamento dell'ultimo minuto,
Yanukovich, alla
conferenza di Vilnius, decise di non firmare i
Trattati previsti, vanificando anni di lavoro per l'adesione
dell’Ucraina alla
Ue. Quasi immediatamente, a
Kiev esplosero disordini e proteste violente, che provocarono l’uccisione di almeno cento persone. La maggioranza di queste sollevazioni erano organiche; altre, spinte dallo
Svoboda (il
Partito di estrema destra, nazionalsocialisti che si fecero sostenitori dell’entrata
dell’Ucraina nella
Nato in funzione antirussa). Dopo la fine delle proteste, a fine febbraio del
2014, l’Euromaiden si concluse con la fuga e la messa in stato di accusa di
Yanukovych. Nacque così la
rivoluzione ucraina, che fu accompagnata da una rapida serie di cambiamenti nel sistema politico, tra cui il ripristino della
Costituzione del
2004, l'installazione di un nuovo governo provvisorio presieduto da
Arsenij Jacenjuk, l'abolizione di una legge che riconosceva il
russo come lingua regionale ufficiale e lo svolgimento di elezioni presidenziali anticipate, che videro l'elezione di un
‘filoeuropeista’, Petro Porosenko, il
25 maggio 2014. A partire da quel momento, la
Russia non ha mai voluto riconoscere come legittimo il
Governo di Kiev. E anzi, ha cominciato a
‘bollare’ la
rivoluzione ucraina come un
golpe orchestrato da
Stati Uniti e
Unione europea. Fu allora che, in
Crimea, la storica penisola nel
Mar Nero abitata prevalentemente da russofoni, un gruppo di ribelli, con l’aiuto di militari senza insegne nazionali chiamati
‘omini verdi’ per il colore delle loro uniformi (che poi si scoprì essere milizie appartenenti alle truppe d’élite russe), insorse e proclamò l'indipendenza della penisola, chiedendo, dopo un
‘referendum-farsa’, vinto con oltre il
95% dei voti, l'autodeterminazione e, in seguito, l'annessione della
Crimea stessa alla
Russia. Un esito che
Putin riconobbe immediatamente, ma che non è mai stato accettato né dal
Governo di Kiev, né
dall'occidente. Un’insurrezione armata molto violenta esplose, inoltre, nel successivo mese di
aprile 2015, nella parte orientale del Paese, il
Donbass, dove alcune forze separatiste, foraggiate dal
Cremlino, diedero inizio a una guerra civile ancora in corso nelle province di
Donetsk e
Lugansk. Queste ultime si sono proclamate, a loro volte,
“Repubbliche indipendenti”, a seguito di altri referendum che
Kiev si è sempre rifiutata di riconoscere come legittimi. Ora, dopo questa nostra ricostruzione degli antefatti, assai più chiara può apparire agli occhi dei lettori quale sia la
vera ‘spaccatura’ all’interno del Paese ucraino: quella tra
filoeuropeisti e
filorussi. La guerra non si combatte solo sul fronte armato, ma anche sul piano dell’informazione:
Volodymyr Zelenskyj sta cercando di contrastare in tutti i modi
l’influenza russa in
Ucraina, che ha un ruolo tutt’altro che trascurabile. Le misure, dunque, non sono
inaspettate. Secondo alcuni esperti, come il dottor
André Härtel del
‘Gruppo di ricerca per l'Europa orientale e l'Eurasia’ dell'Istituto tedesco per gli Affari internazionali e la Sicurezza (Swp), le misure attuate da
Zelenskyj nell'attuale crisi non sono affatto sorprendenti: da un lato, i
divieti di Partito e la
fusione dei
canali televisivi sono in continuità con l'azione del
Consiglio di sicurezza di Stato ucraino contro politici e oligarchi filorussi dal
febbraio 2021; dall’altro,
“sono in diretta connessione con le necessità dello stato di guerra", ha affermato
Härtel a
ZdfHeute, un’importante emittente tedesca, la seconda in
Germania dopo la
Ard. “Le accuse contro le parti sono abbastanza giustificate”, ha aggiunto lo studioso,
“poiché le persone e le parti interessate rappresentano una minaccia significativa. E non solo dall'inizio della guerra. Le accuse di lavorare sistematicamente contro lo Stato ucraino sono, nella maggior parte dei casi, corrette. Le possibilità finanziarie e il potere di questi attori filo-russi non devono essere sottovalutati", ha concluso
Härtel. Tra i
Partiti sospesi figura anche la
‘Piattaforma di opposizione - Per la vita (Opzzh)’, che alle elezioni del
2019 ha preso il
13% dei voti, ottenendo
43 seggi parlamentari su
450. Si tratta di una formazione apertamente
filorussa e
antieuropeista, guidata dall’oligarca ucraino di origine russa,
Viktor Medvedchuk. Quest’ultimo, durante la campagna elettorale, ha sostenuto una politica a favore dei territori con
presenza russa dell’est, riconoscendo le
Repubbliche del Donetsk e di
Luhansk. La vicinanza di
Medvedchuk a
Putin è cosa data come certa, tanto che lo stesso oligarca ha definito il presidente della
Federazione russa: “Un amico personale”. Nel maggio del
2021, Medvedchuk era finito agli
arresti domiciliari con l’accusa di
alto tradimento per alcuni suoi affari legati alle
miniere di carbone in
Crimea, attraverso i quali avrebbe finanziato le
forze separatiste filorusse. Tre giorni dopo l’inizio dell’invasione russa in
Ucraina, Medvedchuk è evaso dagli arresti domiciliari e non si sa più che fine abbia fatto. Nonostante
Opzzh sia stato il principale agente
dell'influenza russa in
Ucraina, fornendo sostanziali informazioni di
‘intelligence’ a
Mosca, il
Partito può comunque vantare una composizione variegata e ospita al suo interno diverse
voci indipendentiste ucraine. Dopo l’invasione russa in
Ucraina, infatti,
Opzzh ha preso le distanze dal
Cremlino, condannando la guerra e invitando i suoi membri a prendere parte alla difesa territoriale. Poi, c'è
Nashi (letteralmente:
‘Nostro’, ndr), un Partito che conta
6 seggi al
parlamento di Kiev, finito anch’esso nella lista dei
‘Partiti sospesi’. E’ guidato da
Yevhen Murayev, un imprenditore e politico che possiede diversi
canali televisivi e
siti di news filorussi. Secondo un rapporto
dell’intelligence britannica, la
Russia stava considerando la possibilità di
rimuovere Zelensky dalla presidenza
dell’Ucraina e mettere al suo posto proprio
Murayev. Un altro tra i
Partiti sospesi è il
‘Blocco di opposizione’. Anch’esso conta
sei seggi in parlamento e deriva dalla fusione di varie formazioni che, nel
2014, non avevano appoggiato
l’Euromaidan, cioè le
sollevazioni popolari europeiste che avevano portato alle dimissioni del presidente,
Viktor Yanukovich. Di certo, quel che hanno in comune questi Partiti temporaneamente sospesi non è il loro essere di
sinistra, quanto piuttosto il fatto di avere legami con la
Russia e la poca rappresentanza ottenuta in parlamento. Si tratta, dunque, di forze politiche che hanno poco a che fare con la
concezione occidentale di ‘sinistra’, poiché molto vicini al
nazionalismo russo. Il
Partito socialista progressista è uno di questi: una derivazione del
Partito nazionalbolscevico composto da
fondamentalisti religiosi, razzisti e
ultranazionalisti russi, affiliati all'organizzazione ultra-conservatrice di
Aleksandr Dugin. “Il Partito socialista progressista, in passato era una formazione di centrosinistra, ma è stato dirottato dalle forze pro-Putin”, afferma
Vladyslav Starodubtsev, membro del
Sotsialnyi Rukh, un
‘Movimento sociale’ nato nel
2016 per rispondere alla mancanza di una
vera sinistra in
Ucraina. “Esso è oggi radicato nell'estremo nazionalismo russo anti-ucraino”, spiega
Starodubtsev, “fino alla negazione dell'esistenza stessa degli ucraini. Si tratta di una forza politica che non ha più niente in comune con il socialismo”. A essere stato sospeso dal
decreto di Zelenskyj è anche il
Partito di Shariy. Il quale, oltre a non avere seggi in parlamento, vede semplicemente come suo fondatore
Anatoly Shariy: un esponente che fa
propaganda russa al soldo di
Putin e apertamente schierato contro il governo di
Zelenskyj, le cui dichiarazioni in patria contro
rom, omosessuali ed
ebrei sono
tristemente note. Tutti gli altri Partiti non sono mai stati rilevanti nella politica del Paese e non hanno seggi in parlamento. Risulta pur vero che le
scelte ‘censorie’ dell’attuale
presidente dell’Ucraina hanno fatto molto discutere e sono state giudicate
eccessive, anche in uno
stato di guerra. Di sicuro, non si può certo dire che dietro queste decisioni non vi siano
forti motivazioni. Anche perché,
l’equiparazione del governo di Kiev con il
regime di Putin è
ingiusto: le contromisure prese dal
presidente ucraino sono scattate in una
situazione bellica particolare, dettata da un’invasione che passa anche attraverso
l’informazione e la
propaganda. Una
propaganda che, è bene sottolinearlo, esiste su
entrambi i fronti del conflitto.