Claudio Martelli, socialista, è stato l'ultimo Ministro della Giustizia della cosiddetta 'prima Repubblica', Alfredo Biondi, liberale di Forza Italia, il 'primo della seconda': entrambi sono rimasti in carica molto poco. Furio Gubetti, già leghista e ora Senatore di Forza Italia, è Segretario in carica della Commissione Giustizia del Senato.
Abbiamo messo a confronto le loro opinioni.

La questione giustizia in Italia sembra essere una delle più delicate che i governi si trovano ad affrontare. L'accusa più grave che si rivolge alla magistratura è quella di aver orientato l'andamento della politica, prima distruggendo i partiti che avevano governato il Paese per cinquant'anni e, adesso, attaccando il Presidente del Consiglio e i suoi 'uomini'.
Si è parlato di magistrati 'infiltrati' dal vecchio Pci. Voi cosa pensate dell'intreccio politica-giustizia?

MARTELLI: "Io penso che, purtroppo, si tratti di un vero e proprio 'cancro' della nostra vita civile, poiché laddove non si hanno garanzie d'imparzialità della funzione essenziale della giustizia, tutto diviene equivoco, sospetto o, peggio ancora, strumentale. Naturalmente, i rischi possono venire da entrambe le parti, cioè da una politicizzazione della magistratura, nel senso di un suo eccesso di interventismo nella vita politica contro qualcuno o a favore di qualcun altro - e questo è un pericolo verso il quale una parte di essa, non dico tutta, si è esposta nel corso della stagione cosiddetta di 'mani pulite' -, ma anche dal sospetto opposto, cioè quello di una connivenza o subalternità di altri distinti settori, sempre della magistratura, a determinati interessi politici: una sorta di particolare benevolenza nel trattare alcuni casi.
Personalmente, ho avuto esperienza di entrambe queste distorsioni dell'attività giudiziaria e di tali assenze d'imparzialità. Ho visto, ad esempio, proprio in anni recenti, accordi pressoché unanimi a sostegno di interpretazioni di modifiche costituzionali - mi riferisco a quelle collegate all'idea del 'giusto processo' e sostenute sia dalla destra sia dalla sinistra -, le quali hanno però finito con l'escludere una categoria particolare di cittadini: quelli che erano stati colpiti negli anni di 'mani pulite'. E ciò col consenso del centrodestra, il quale ha anch'esso escluso da benefici giusti, legittimi e previsti dalla legge sul 'giusto processo', imputati che erano innanzi alla Cassazione e che attendevano queste nuove garanzie, queste tutele più perfezionate…".
BIONDI: "La giustizia è una cosa seria: non può decadere a mero strumento di lotta politica. E' fuor di discussione che la maggior parte dei magistrati la pensa certamente così, ma subisce chi, per passione o per interesse politico correntizio, ha spesso avuto un senso unilaterale degli accertamenti giudiziari, In ogni caso, personalmente non ritengo ci siano degli 'infiltrati' nel senso tecnico del termine: ci sono degli 'orientati', nel senso politico di tale accezione.
Va da sé che le inchieste contro le aziende di Berlusconi sono iniziate dopo la sua decisione di 'scendere in campo': sarà una coincidenza…".
GUBETTI: "Io ritengo, invece, che buona parte dei guai italiani dipendano dall'imperfetta separazione tra potere legislativo e potere giudiziario. Questa mancanza di confini netti porta, infatti, a continui conflitti di competenza e alla tentazione di debordamento dai propri compiti.
Quando, con Tangentopoli, la politica nel suo insieme ha sofferto una crisi di delegittimazione, il conseguente vuoto di potere è stato riempito, più o meno consapevolmente ma inevitabilmente, da magistrati guidati forse più da propri preconcetti ideologici che da un vero piano eversivo comunisteggiante. Questa partecipazione diretta di una parte, minoritaria ma egemonizzante, dei magistrati alla lotta per il potere, con la conseguente perdita della necessaria immagine d'imparzialità, ha poi finito per portare all'attuale crisi di delegittimazione della magistratura stessa, come i sondaggi di opinione ampiamente dimostrano.
Insomma, credo sia giunto il momento di tracciare ex novo chiari confini, condivisi dalla più ampia maggioranza possibile, usando, come Romolo, 'la spada' contro chiunque voglia violarli, dall'una e dall'altra parte".

Ma la separazione delle carriere potrà dare risultati concreti sull'indipendenza dei magistrati?
GUBETTI: "La separazione delle carriere, che esiste in quasi tutti i Paesi democratici del mondo senza che ciò susciti le polemiche italiane, è necessaria a rendere il magistrato giudicante ugualmente indipendente sia dall'accusa sia dalla difesa. Chi non lo capisce ha un concetto inquisitorio, poco liberale e per nulla laico del procedimento processuale, scarsamente compatibile con una vera democrazia".
BIONDI: "Infatti, anche se a me appare che la separazione delle carriere, alla fine, venga sostituita da una separazione delle funzioni - il che non è la stessa cosa -, obbedisce all'esigenza che il giudice sia davvero terzo tra chi accusa e chi si difende. Ora, non è di certo così".
MARTELLI: "In effetti, questo è il punto cruciale di tutta la faccenda: quello di una magistratura giudicante effettivamente imparziale. Mi spiego meglio: che sia imparziale la magistratura inquirente non è cosa strettamente necessaria, poiché la funzione accusatoria è, per sua natura, 'partigiana', naturalmente non in senso politico, ma per definizione tecnica in quanto 'parte' di un processo che affronta contro quella avversa, rappresentata dall'avvocato difensore. Noi dovremmo invece riuscire a garantirci un'imparzialità nel senso della 'terzietà' del giudice e, dunque, una distinzione coerentemente rigida della funzione giudicante da quella della pubblica accusa. In tal senso, io addirittura non credo che possa bastare la semplice separazione delle carriere a garantire questi obiettivi, poiché mi sembra, comunque, una riforma non completa, fatta a metà.
In Italia, si è voluto adottare un codice di procedura penale di stile accusatorio, 'alla anglosassone', permanendo però una cultura dell'avvocatura priva degli strumenti, delle mentalità e delle esperienze necessarie a chi dovrebbe poi fare la cosiddetta 'controindagine'. Per intenderci: non esiste, qui da noi, la figura dell'avvocato 'tipo Perry Mason', che indaga e ricostruisce i casi in esame secondo metodologie, considerazioni e, soprattutto, prove acquisite per conto proprio seguendo piste d'indagine effettivamente alternative. Non ha perciò senso avere un processo di tipo accusatorio e un avvocato che non viene posto nelle condizioni per esercitare una funzione di controindagine.
Lo stesso accade per ciò che riguarda la separazione delle carriere: noi avremmo bisogno di giudici certamente imparziali che venissero, però, reclutati tra magistrati, esperti di diritto e, sottolineo, anche tra gli avvocati. Nel processo anglosassone molti giudici sono, in realtà, ex avvocati e non soltanto ex magistrati. Per ottenere il medesimo risultato, questa benedetta separazione deve perciò risultare adeguatamente rigida, pur permanendo nell'alveo del medesimo ordine giudiziario.
Non si potrà arrivare mai al traguardo di una vera imparzialità, se non perseguendo questa strada. Tra l'altro, fui proprio io a proporre, quando ero Ministro della Giustizia, un'innovativa composizione della Corte di Cassazione, la quale stabiliva che almeno il 10% dei magistrati venisse reclutata anche tra avvocati ed esperti di diritto".

Per ridurre il forte legame tra politica e magistratura è utile riformare il Csm nel senso proposto dal Ministro Castelli?
MARTELLI: "E' un passo in avanti, che può avere una sua utilità nel senso di una diminuzione del peso delle correnti - anzi, dei veri e propri partiti - organizzatesi all'interno della magistratura. Il voto uninominale anziché quello di lista e la riduzione del peso eccessivo che, all'interno dell'organo di autogoverno, hanno acquisito i pubblici ministeri, sono riforme giuste, anche se non risolvono alla radice il problema centrale delle forme di autogoverno interno all'ordine giudiziario stesso, nel quale circola ancora poca 'aria fresca', poco rinnovamento. Cambiamenti in senso pieno si potranno avere soltanto, lo ripeto, se altri soggetti potranno partecipare alla regolazione interna della vita giudiziaria".
GUBETTI: "Infatti, il voto uninominale anziché quello di lista ha già cambiato la politica italiana ed io non credo in peggio. Spero dunque possa essere utile anche per migliorare la difesa dell'indipendenza e dell'autonomia dei singoli giudici rispetto non soltanto alle intrusioni della politica, ma anche alle pressioni corporative dei propri colleghi organizzati in correnti. Le proposte del Ministro Castelli vanno in questa direzione, anche se convengo che non saranno sufficienti, da sole, a risolvere il problema".
BIONDI: "Anch'io ritengo che saranno riforme utili. Ma anch'io mi domando se le scelte del governo possano risultare idonee ed efficienti a questi fini".

E qual è il vostro giudizio sulla proposta dell'On. Carlo Taormina di affidare la sezione disciplinare del Csm a non magistrati?
BIONDI: "Beh…può essere un'idea, anticonformista come l'amico Taormina…".
GUBETTI: "A mio parere, il problema non è che chi giudica disciplinarmente i magistrati sia un magistrato, ma che venga eletto da coloro che deve giudicare. Per 'coerenza di sistema', giudici e giurati dovrebbero infatti essere eletti dai cittadini. Credo, inoltre, che un miglior livello di autonomia del giudizio, rispetto alle eventuali pressioni dei colleghi o all'inevitabile solidarietà di categoria, potrebbe essere raggiunto estraendo a sorte i componenti della sezione disciplinare anche fra magistrati di Cassazione di recente pensionamento".
MARTELLI: "Il mio giudizio, nel contesto di ciò che ho già detto, è che anche questa possa essere una proposta utile. Ma il concetto essenziale, a mio parere, rimane quello di una funzione giudiziaria che, nel suo insieme, venga vista non come prerogativa esclusiva dei magistrati, cioè come se fossero una corporazione, bensì nell'ottica di una funzione che appartiene a tutti coloro i quali sono interessati ad un buon andamento complessivo della vita giudiziaria stessa".

Per concludere il nostro dibattito, quali altre misure sarebbero necessarie per separare rigidamente la politica dall'amministrazione della giustizia, secondo voi?
GUBETTI: "Un codice deontologico, condiviso dalla maggioranza dei magistrati, che tipicizzi le violazioni disciplinari e le conseguenti sanzioni. Il giudice deve essere, ma anche apparire, come la 'moglie di Cesare', superiore ad ogni sospetto di parzialità. Lo dice anche la Costituzione: il giudice deve essere soggetto soltanto alla legge. Ma tale 'soggezione' va, poi, realmente rispettata da tutti. Oggi accade, viceversa, che alcuni magistrati parlino e agiscano come se la legge fosse soggetta a loro. Il Parlamento deve esser difeso da simili intromissioni, che di fatto ledono il principio della divisione dei poteri. Come ha giustamente ricordato anche il Presidente Emerito della Corte Costituzionale, il Prof. Caianiello, se un giudice non condivide e non vuole applicare una legge democraticamente votata da Camera e Senato, ha una sola strada: le dimissioni".
MARTELLI: "A mio parere, il punto decisivo rimane quello della collocazione del pubblico ministero: l'Italia è l'unico Paese nel quale il Pm si ritrova in una condizione di totale ed assoluta indipendenza, sia rispetto al Ministro di Grazia e Giustizia, al Parlamento e al governo, sia rispetto alla stessa gerarchia giudiziaria. Si tratta cioè, conseguentemente a riforme adottate negli anni '70, di un potere cosiddetto 'diffuso', nel quale ogni singolo sostituto procuratore è materialmente abilitato ad assumere iniziative che possono avere conseguenze devastanti sulla vita dei cittadini, specie nei casi di errori giudiziari 'iniziali', in sede di impostazione dell'indagine: può privare della libertà, può danneggiare reputazioni, colpire la dignità personale di una persona.
Il ritorno ad un sistema di collegialità della pubblica accusa è dunque certamente auspicabile, a mio parere, senza dimenticare, nello stesso tempo, l'esigenza di una maggior responsabilizzazione da parte del mondo della politica. Non si può pretendere che parlamenti e governi tentino di risolvere questioni, come la sicurezza o la repressione della criminalità, senza porsi il problema delle scelte d'indirizzo. Quando istituimmo la procura nazionale antimafia, io proposi che il Parlamento, una volta l'anno, almeno per ciò che riguardava la lotta alla grande criminalità organizzata, investisse la magistratura inquirente dei propri orientamenti più specificamente politici sul come condurre il durissimo conflitto. Del resto, oggi tutti riconoscono che, se c'è stata una stagione in cui la lotta alla mafia è stata efficace, è stata proprio quella, perché era il governo a condurla. Se la lotta alla criminalità viene delegata ai singoli procuratori diffusi sul territorio, diviene allora molto difficile attendersi grandi risultati".
BIONDI: "Per parte mia, io non credo alle misure legislative, perché è difficile stabilire per legge ciò che dipende dalla coscienza dei singoli o dalla deontologia dell'ordine giudiziario…".

Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio