Pietro PisanoRilasciata su Netflix dal 12 novembre dello scorso anno, ‘Ethos’ è una vera ‘perla’ televisiva ad opera del regista turco, Berkun Oya. Una serie che stupisce, commuove e riesce a porsi come alternativa autoriale rispetto a certe produzioni seriali a ciclo continuo, di dubbia qualità. Un racconto che potremmo definire corale: storie che si incastrano l’una con l’altra in una perfetto mosaico narrativo, che ha l’ambizione di raccontare la Turchia di oggi, senza rinunciare alla rappresentazione di tutte le sue grandi contraddizioni. L’ultimo lavoro di Berkun Oya, regista e sceneggiatore di notevole talento, già autore del thriller psicologico ‘Masum’ (in turco: Innocente, ndr), è stato descritto come una sorta di terapia collettiva di stampo ‘junghiano’. Non a caso, la scelta di modificare il titolo della serie nel mondo anglosassone col nome ‘Ethos’ è un chiaro rimando alla teoria psicoanalitica di Jung, attraverso la quale quest’opera si ispira in molti punti, fornendo alla dinamica degli episodi una notevole profondità. E’ bene tuttavia ricordare che l’originale, ‘Bir Baskadir’, in turco significa “qualcosa di diverso, qualcosa di differente”, o “tutta un’altra cosa”. Quasi a suggerire che ci troviamo in presenza di tutt’altra cosa rispetto agli standard televisivi di piattaforme di streaming quali Netflix e Amazon Prime video. A partire dal montaggio e dai lunghi ed eleganti piani sequenza, fino ad arrivare ai dialoghi, scarni ed essenziali, resi ancora più potenti e significativi grazie al ritmo dilatato e ipnotico degli episodi. Uno dei personaggi princiali è Meryem: una giovane donna musulmana con il capo coperto dal velo, da tempo vittima di misteriosi svenimenti di probabile origine psichica. La ragazza decide, dopo aver accertato dalle analisi l’assenza di qualsiasi origine fisica del problema, di iniziare, su suggerimento medico, un percorso psicoterapeutico nello studio di Peri (donna intellettuale di stampo laico e progressista). Il primo episodio mette fin da subito in evidenza quello che sarà il fulcro su cui ruoterà l’intera serie, ovvero il conflitto tra una Turchia di tipo islamico, a cui fa da contraltare una Turchia colta, occidentalizzata e laica, ma non per questo necessariamente perfetta in quanto a pregiudizi e rigidità. Non si tratta di una semplice contrapposizione binaria ma dell’incomunicabilità che si è instaurata tra culture e linee di pensiero differenti: ciò che infatti interessa al regista è indagare la complessa rete di relazioni, che nonostante la presenza di muri invisibili presenti nella società turca, si viene a creare tra i molti personaggi che costellano la narrazione. Lo spettatore si trova dunque ad assistere all’incontro tra individui che provengono da mondi distanti e inconciliabili: la figlia di una guida spirituale islamica chiusa in un bagno di un night con la sua compagna; il nevrotico fratello di Meryem, ex soldato d’élite, il quale lavora come buttafuori nello stesso locale, al centro di Istanbul; la psichiatra Peri, intellettuale ostile ai costumi dell’Islam che farà amicizia con una famosa attrice da soap opera turca; fino ad arrivare a Meryem, alfa e omega di ‘Ethos’, ragazza imprigionata nell’asfittica realtà rurale musulmana, succube del patriarcato, che lavora come domestica presso il signor Sinan, di cui si è innamorata. Sullo sfondo, una Istanbul multiforme e stratificata, lontana da ogni visione edulcorata della città, insieme alla desolazione di periferie spoglie e cupe. A Meryem, è affidato il compito di sospendere la narrazione, in un finale aperto che ci porta, curiosamente e in modo circolare, di nuovo all’inizio.





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