Pietro PisanoAmanda Gorman, la giovane poeta afroamericana che ha recitato un suo testo alla cerimonia d'insediamento del presidente democratico, Joe Biden, lo scorso 20 gennaio, continua a far parlare di sé e scatenare nuove polemiche. Procediamo con ordine: da quel che si è capito, pare sia stata la moglie di Biden a invitare la Gorman a declamare i suoi versi. Abbiamo dunque assistito alla fiera del ‘politically correct’: un modo come un altro che il potere è solito utilizzare per legittimare se stesso. In questo caso, si trattava di utilizzare la povera Gorman, per esaltare le qualità e l’unicità degli Stati Uniti d’America come esempio di una società più giusta per tutti i popoli: la poesia divenuta squallidamente ‘ancella’ del potere. Poco importa che il testo fosse mediocre, retorico fino al midollo, persino un po' 'kitsch': ‘The hill we climb’ ha assolto la sua funzione in maniera eccellente. Quello che serviva era una poesia piena di immagini stereotipate, il più possibile bibliche, tipicamente americane, fondative. Come, per esempio, ‘La città sulla collina’ di John Winthrop, primo governatore del Massachusetts, che nel 1630 salpò verso il Nuovo Mondo e che compose un testo divenuto molto importante per l’identità americana, intitolato: ‘Un sermone di carità cristiana’. Il mito fondativo americano nasceva anche da qui. Furio Jesi, germanista e mitologo, metteva in guardia dall’utilizzo del mito per scopi politici, sottolineando come tutto possa essere ‘fagocitato’ dalla ‘macchina mitologica’. Un’operazione che può interessare sia la destra, sia la sinistra, nonostante il meccanismo sia tipicamente di culture appartenenti alla conservazione. Non si parla più, dunque, del mito genuino e creativo - un qualcosa cui nessun popolo può rinunciare, perché la fame mitologica non può essere soppressa e, in qualche modo, fa parte della natura dell’uomo - ma della sua ‘tecnicizzazione’. Recentemente, gli estremismi del ‘politically correct’ stanno conducendo un percorso discutibile, sebbene vi siano dietro delle intenzioni tutto sommato buone, che la maggior parte di noi condivide. Impossibile non pensare a una specie di ‘razzismo rovesciato’ ascoltando le polemiche sorte dopo la scelta di far tradurre i testi di Amanda Gordam a Marieke Lucas Rijneveld, una ragazza olandese che secondo alcuni non avrebbe diritto di lavorare sui versi della poeta afroamericana, in quanto “troppo bianca”. E’ questo che se ne ricava dalle parole deliranti piovute sui social dopo che Marieke ha annunciato su Twitter che si sarebbe occupata di tradurre ‘The hill we climb’. Secondo alcuni, la Rijneveld sarebbe “troppo bianca” per capire la prospettiva afroamericana della Gorman, la quale parla di come migliorare la società e superare ogni forma di razzismo. “In un momento di crescente polarizzazione, Amanda Gorman mostra il potere della riconciliazione”: sono le parole di Marieke che hanno fatto storcere il naso ad alcuni, poiché il termine ‘polarizzazione’ indicherebbe che i neri si ‘arroccano’. Lo scorso 26 febbraio, quindi, la giovane poetessa olandese ha annunciato la sua marcia indietro sempre su Twitter: “Sono scioccata dal clamore causato dal mio coinvolgimento nella divulgazione del messaggio di Amanda Gorman e capisco le persone che si sono sentite ferite dalla scelta dell’editore Meulenhoff”. Janice Deul, attivista e giornalista olandese del Suriname, in un commento sul quotidiano 'de Volkskrant' ha scritto: “Senza nulla togliere alle qualità della Rijneveld, perché non scegliere una scrittrice che è - proprio come la Gorman - famosa, giovane, donna e impenitentemente nera”? Dichiarazioni che lasciano sconcertati. Soprattutto, perché provengono da chi dovrebbe battersi per il superamento di certi meccanismi e di qualsivoglia forma di discriminazione. La casa editrice Meulenhoff ha difeso le sue scelte, sostenendo che la Rijneveld era la persona ideale, poiché l’editore americano aveva chiesto qualcuno “affine al lavoro della Gorman anche nello stile e nei toni”. La poetessa olandese, proprio come la Gorman, ha infatti ricevuto riconoscimenti internazionali in giovane età. E, nel 2020, ha vinto l’International Booker Prize, con il romanzo: ‘Il disagio della sera’ (edito, in Italia, dalla casa editrice Nutrimento, ndr). Ma evidentemente, per certi estremisti del ‘politically correct’ questi riconoscimenti non significano nulla.





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