Pietro PisanoAl teatro 'Stanze Segrete' di Roma è andato in scena in questi giorni lo spettacolo 'Wilhelm Furtwängler. Processo all'arte', diretto e adattato da Ennio Coltorti. Dopo aver proposto nel suo spazio teatrale 'trasteverino' spettacoli come 'Buscetta: santo o boss'? e 'Il sogno di Nietzsche', il grande attore, doppiatore e regista romano sembra voler proseguire, in un'ipotetica 'trilogia', l'analisi dell'animo umano e le contraddizioni del pensiero assoluto, aprendo dibattiti e creando nodi, mostrando storie al di sopra del bene e del male senza voler fornire facili soluzioni o banalizzazioni. Anzi, senza darne proprio, dando vita, in ogni occasione, più che a una messinscena a una nuova esperienza intellettuale, artistica e attoriale. In questo caso, la storia è quella del grandissimo direttore d'orchestra Wilhelm Furtwangler, finito sotto processo nel dopoguerra per aver, forse, appoggiato il regime nazista e, sicuramente, per non esservisi opposto. Salvatore di Ebrei per qualcuno, spia del regime per altri, la sua storia rimane l'emblema di una 'querelle intellettuale' sempre contemporanea: è dovere dell'arte e dell'artista impegnarsi politicamente? Prendere posizione riconoscendo il male assoluto? Oppure, la sua funzione sociale è solo quella di parlare attraverso la bellezza, rendendo quest'ultima un messaggio di libertà in quanto tale, scevra da qualunque declinazione partigiana? Una questione insoluta, che Coltorti, in scena con Marco Mete, Tomaso Thellung, Virna Zorzan, Licia Amendola e Federico Boccanera, riesce a mantenere senza sentenza, senza giudizio, offrendo, attraverso una performance caratterizzata dall'estrema vicinanza dell'attore allo spettatore, una sorta di 'buco della serratura' da cui guardare la Storia, ma anche il nostro stesso pensiero di uomini e donne quotidianamente impegnati dai nostri problemi più immediati o contingenti. Una tematica senza soluzioni, che ha mostrato con intelligenza e raffinatezza i due punti di vista, sospendendo completamente ogni giudizio. Il tutto arricchito da due mattatori come Ennio Coltorti e Marco Mete, altro maestro del doppiaggio italiano, a loro volta affiancati da attori un po' giovani, ma talentuosi. "Sapevo che la Germania era in una situazione terribile: io mi sono sentito responsabile per la musica tedesca ed è stato mio compito farla sopravvivere a quella situazione, per quanto ho potuto. La preoccupazione per il fatto che la mia musica potesse essere usata dalla propaganda ha dovuto cedere alla preoccupazione più grande di conservare la musica tedesca, di farla ascoltare al popolo tedesco. Questo popolo, compatriota di Beethoven, Mozart e Schubert, doveva vivere sotto il controllo di un regime ossessionato dalla guerra. Nessuno che non abbia vissuto quei giorni può giudicare com'era. Non potevo lasciare la Germania in quello stato di massima infelicità. Andarsene, sarebbe stata una fuga vergognosa. Dopo tutto sono un tedesco: qualunque cosa si possa pensare di tutto questo all'estero, io non rimpiango di aver fatto questo per il popolo tedesco". Crediamo che tale monologo meriti un plauso a prescindere, poiché ha il merito di aver voluto rispettare pienamente l'umanità del grande musicista tedesco, il quale si ritrovò costretto a convivere con una forma di ipnosi collettiva, generata dalla demagogia. Non possiamo essere tutti eroi. E la nostra stessa umanità è contraddittoria per definizione.


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