Quando
Pablo Picasso e
Georges Braque cominciarono a inserire nei propri
'collages' carte imitative del legno o pezzi di giornale a sostituzione di inserti mimetici di quegli stessi materiali, qualcosa di straordinario nel mondo dell'arte accadde. Dall'attimo in cui
Marcel Duchamp scelse di elevare uno
scolabottiglie a
opera d'arte, prelevandolo dal contesto funzionale e oggettuale d'origine e imprimendogli l'aura artistica esclusivamente attraverso l'apposizione di una
firma - la sua - da quel momento in poi,
l'arte contemporanea non fu più la stessa. Non a caso, in quegli stessi anni,
Vasilij Kandinskij e, insieme a lui, tanti altri, approdarono
all'astrazione, rompendo irreparabilmente quel legame plurisecolare - per non dire plurimillenario - tra
immagine artistica e
visione della realtà, arte, principio d'imitazione e
natura. Le
Avanguardie storiche, in sintesi, impressero alle tendenze artistiche del
XX secolo un'accelerazione inarrestabile verso una nuova concezione
dell'opera d'arte, non più soltanto o per forza vincolata ai
canoni estetici della tradizione, quali
mimesi e
bellezza, ma orientata soprattutto verso ciò che sta alla base dei prodotti artistici: il
concetto, l'idea dell'artista che li crea plasmandoli, modificandoli, assemblandoli o semplicemente scegliendoli così come sono -
'readymade'. Profetiche, per tutto ciò che avvenne nel secolo successivo, le parole di
Louise Norton a proposito di
Fountain, il celebre, comune, orinatoio cui
Duchamp appose la firma pseudonima di
Richard Mutt: "Se mister Mutt abbia fatto o no la fontana con le sue mani non ha importanza. Egli l'ha scelta. Ha preso un comune oggetto di vita, l'ha collocato in modo tale che un significato pratico scomparisse sotto il nuovo titolo e punto di vista: egli ha creato una nuova idea per l'oggetto". Da allora, prerogativa dell'artista è divenuta anche
l'assegnazione di nuovi significati a oggetti, comportamenti o situazioni già esistenti. E, nell'immaginario comune del pubblico,
l'arte contemporanea si è fatta sempre più vicina alla
filosofia, alla
psicanalisi, al
teatro e ad altre
pratiche performative, marcando, in definitiva, la distanza tra
pensiero e
creazione manuale del manufatto artistico, spesso già prefabbricato o affidato all'industria. Questo processo rivoluzionario ha offerto agli artisti una straordinaria
libertà d'azione, consentendo loro di poter attribuire artisticità praticamente a qualsiasi cosa: solo per fare qualche esempio,
Andy Warhol poté prelevare e manipolare
immagini 'basse', immediatamente riconoscibili, traendole dal panorama visivo e pubblicitario contemporaneo;
Piero Manzoni poté
'giocare' con uova sode e palloncini, attribuendogli valore artistico solo per mezzo delle proprie impronte o del proprio fiato. La stessa inaudita e
anarchica libertà la ebbero i maestri del
'New Dada', della
'Minimal Art', dell'happening e della performance,
dell'Arte concettuale e così via. L'arte dei giorni nostri non fa che rivendicare e rivitalizzare la possibilità dell'artista di
tramutare in arte ogni cosa, anche la più banale, attraverso la propria
elaborazione intellettuale. A tal punto da generare nel grande pubblico una certa confusione tra cosa sia
arte e cosa si definisca
fallacemente tale, in cui il pensiero corre subito alla visita alla
'Biennale' delle
'Vacanze intelligenti' di
Alberto Sordi e della moglie
'buzzicona'. Snobismo, venerazione, derisione, curiosità, malinteso, scandalo, provocazione:
l'arte contemporanea non sempre viene capita o apprezzata, di rado viene riconosciuta. In questa
Babilonia, comprensibile e destinata, secondo molti, a
un'élite, il rischio di
'panculturalismo', qualunquismo e
populismo è sempre in agguato. Espandendo all'infinito il concetto di
opera d'arte, tutto può diventare arte e tutti possono diventare artisti. L'arte si fa, allora,
comunicazione, poiché il giudizio diventa problematico e sfuggente. Emblematico quanto accaduto recentissimamente
all'Art Basel di
Miami Beach, mentre alla galleria
'Perrotin' di
Parigi, il provocatorio
Maurizio Cattelan ha preso una banalissima
banana e l'ha attaccata al muro con lo scotch. Titolo dell'opera:
'Comedian'. Valutazione:
120 mila dollari. Il
7 dicembre scorso,
David Datuna si è avvicinato al muro, ha afferrato la
banana e l'ha mangiata:
'Hungry artist' il titolo di quella che lui stesso ha provveduto a definire una
performance, pubblicandone subito il video su
Instagram e ottenendo
300 mila visualizzazioni. Secondo
l'Ansa, il frutto sarebbe subito stato sostituito. Come espresso da
Lucien Terras, direttore di una delle gallerie, il valore dell'opera
"risiede nell'idea". Un episodio apparentemente ilare e leggero come questo non può non suscitare preoccupanti perplessità: una
banana fissata a un muro può essere considerata
un'opera d'arte e arrivare a costare
120 mila dollari? L'atto dissacrante e provocatorio di prenderla e divorarla può essere, a sua volta, considerata una
pratica artistica e
performativa? La confusione è inevitabile. Interessante anche quanto accaduto in un'asta di
Sotheby's, a
Londra, nell'autunno
2018, quando un'opera del misterioso
Banksy, appena venduta per più di
un milione di sterline, si è autodistrutta davanti allo sguardo sbalordito e sorpreso di tutti i presenti. L'artista aveva escogitato la performance, inserendo nella cornice un
dispositivo tagliacarte e, sul suo
profilo Instagram, il video dell'evento recava una frase di
Picasso come didascalia:
"L'urgenza di distruggere è essa stessa urgenza creativa". Vicende di questo tipo pongono innumerevoli interrogativi, tutti gravitanti attorno a quello principale:
che cos'è l'arte e
qual è la sua funzione? L'arte contemporanea intriga proprio per questo. E la sua importanza consiste proprio nella capacità di porsi problematicamente con il mondo. Un fatto di questi ultimissimi giorni? Il
31 dicembre 2019, esattamente quest'oggi per chi scrive, si è conclusa a
Roma l'esperienza del
'Macro Asilo' di
Giorgio de Finis, un progetto sperimentale e d'artista avviato alla fine di
settembre 2018 e protrattosi per
15 mesi nel
Macro di
via Nizza. Memore di quanto fatto al
Maam, l'audace
de Finis ha proposto una
critica al sistema dell'arte, corrotto da ragioni di mercato e poco meritocratico, invitando a partecipare alla fittissima programmazione espositiva
"chiunque si autodefinisse artista". Infinite le critiche ricevute, ma eloquente la risposta del direttore artistico dell'intero esperimento:
"Quest'idea del 'setaccino', che qualcuno, il critico, il museo, si metta lì sotto lo 'tsunami' a dire 'adesso io fermo quello di buono che c'è', mi sembra un tantino ridicola. La selezione aperta non vuol dire che tutti sono premiati. Anzi, è il modo forse più giusto di premiare solo chi ha qualcosa di realmente interessante da dire. Il fatto che io apra la porta e non la chiuda semplicemente, vuol dire che non mi arrogo io il compito di decidere chi sia bravo e chi no, chi va in paradiso e chi all'inferno".