Stefania CatalloLaddove l'esperienza della repressione - con tutte le difficoltà dovute all'essere donna, politica e madre - dovrebbe aver favorito una maggiore sensibilità al tema dei diritti umani, Aung San Suu Kyi ha recentemente negato, invece, che siano stati commessi crimini verso la popolazione Rohingya, come espresso tramite una sua dichiarazione dello scorso 11 dicembre che ha provocato smentite da Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie. La missione d'inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite sul Myanmar ha infatti dichiarato di aver scoperto che "i soldati del Paese impiegavano sistematicamente, contro la minoranza musulmana Rohingya, stupri di gruppo e altri atti sessuali, violenti e forzati, perpetrati verso donne, ragazze, ragazzi, uomini e persone transgender, in palese violazione dei diritti umani internazionali". Tutto si ripete. La lista è lunga, ma basta ricordare la guerra dei Balcani, oppure i più recenti crimini perpetrati dal Daesh o da Boko Haram. Ora, gli stupri sistematici e la pulizia etnica sono stati scoperti anche nel Myanmar, laddove, per imporre il predominio di un gruppo, la violenza sessuale viene impiegata come mezzo coercitivo per incutere terrore, nonché per favorire le gravidanze, che sono il mezzo più semplice per operare la commistione razziale. Per comprendere bene la portata del fenomeno è però indispensabile fare alcune precisazioni: la violenza sessuale deve essere intesa come mezzo di sottomissione e soggezione operato contro soggetti vulnerabili. Pertanto, è necessario abbandonare la convinzione che si tratti unicamente di un atto basato sul desiderio sessuale. I danni provocati alle vittime, oltre a quelli fisici, che vanno dalle lacerazioni alla diffusione delle malattie, molte delle quali in grado di poter compromettere lo svolgimento di future gravidanze, riguardano anche la sfera psicologica: dai suicidi alle conseguenze della sindrome da stress post traumatico, al nascere di psicosi e di altre gravi patologie. Alla luce di ciò, quello che accade ai Rohingya va inquadrato nei crimini contro l'umanità e nelle violazioni dei diritti umani. La missione delle Nazioni Unite aveva già documentato, in un precedente rapporto, altri gravi abusi perpetrati a Rakhine nel 2016 ed episodi simili, compiuti negli stati di Kachin e Shan. La violenza sessuale è diventata, perciò, 'segno distintivo' delle operazioni militari in questi territori. Nonostante il rapporto della missione Onu parli chiaro, il governo e le forze armate del Myanmar hanno decisamente negato di aver compiuto violazioni dei diritti umani, affermando che le operazioni militari a Rakhine erano giustificate e compiute in risposta agli attacchi degli insorti rohingya. "La violenza sessuale è il risultato di un problema più ampio di disuguaglianza di genere e mancanza dello stato di diritto", afferma il rapporto, rilanciato e approfondito da Radhika Coomaraswamy, noto avvocato dello Sri Lanka che fa parte della triade di esperti internazionali della missione e che, durante una conferenza stampa presso la sede delle Nazioni Unite a New York ha dichiarato: "Il quadro discriminatorio di leggi e pratiche, anche in tempo di pace, contribuisce e aggrava la violenza contro le donne in tempo di guerra". Coomaraswamy ha anche ribadito la necessità di istituire un "meccanismo internazionale", come ad esempio un tribunale internazionale, per processare autori e mandanti delle violenze. L'avvocato ha poi continuato, dichiarando "l'uccisione diffusa e sistematica di donne e ragazze, la selezione attenta di donne e ragazze in età riproduttiva per lo stupro, gli attacchi a donne in gravidanza e a bambini, il marchio fisico lasciato sui loro corpi, che presentano segni di morsi sulle guance, collo, seno e coscia, oltre che ferite così gravi da menomare le vittime, non rendendole in grado di avere rapporti sessuali o di concepire, incutendo loro il timore che non sarebbero più in grado di avere figli. Tali violenze sono possibili solo in un clima di tolleranza e impunità di lunga data, in cui il personale militare non ha ragionevole paura della punizione o dell'azione disciplinare. Quindi riteniamo che, nel caso dei Rohingya, l'intenzione sia di distruggere la popolazione, inviarli, farli fuggire". In risposta a questo e a un altro rapporto della missione, all'inizio di questo mese sui presunti responsabili delle attività militari delle forze armate, il ministero degli Esteri del Myanmar ha affermato che, stabilendo la missione conoscitiva, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite "ha superato il suo mandato e ha violato i termini e le pratiche di legge. Non riconosciamo né la missione conoscitiva, né il rapporto che ha prodotto. Il governo del Myanmar respinge categoricamente l'ultimo rapporto e le sue conclusioni". Intanto, la violenza contro i Rohingya è aumentata notevolmente, a seguito di una brutale campagna di 'controinsurrezione', che ha portato oltre 700 mila abitanti dei Rohingya a rifugiarsi nel vicino Bangladesh, dove  vivono ancora in condizioni al limite. Nonostante sia stata pianificata un'operazione di rimpatrio in Myanmar, nessuno si è presentato per essere riportato indietro. E questo è un gesto esaustivo per definire la condizione della popolazione dei Rohyngia.


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