Laddove l'esperienza della repressione - con tutte le difficoltà dovute all'essere donna, politica e madre - dovrebbe aver favorito una maggiore sensibilità al tema dei diritti umani,
Aung San Suu Kyi ha recentemente negato, invece, che siano stati commessi crimini verso la popolazione
Rohingya, come espresso tramite una sua dichiarazione dello scorso
11 dicembre che ha provocato smentite da
Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie. La
missione d'inchiesta internazionale indipendente delle
Nazioni Unite sul
Myanmar ha infatti dichiarato di aver scoperto che
"i soldati del Paese impiegavano sistematicamente, contro la minoranza musulmana Rohingya, stupri di gruppo e altri atti sessuali, violenti e forzati, perpetrati verso donne, ragazze, ragazzi, uomini e persone transgender, in palese violazione dei diritti umani internazionali". Tutto si ripete. La lista è lunga, ma basta ricordare la
guerra dei Balcani, oppure i più recenti crimini perpetrati dal
Daesh o da
Boko Haram. Ora, gli
stupri sistematici e la
pulizia etnica sono stati scoperti anche nel
Myanmar, laddove, per imporre il predominio di un gruppo, la
violenza sessuale viene impiegata come mezzo coercitivo per
incutere terrore, nonché per
favorire le gravidanze, che sono il mezzo più semplice per operare la commistione razziale. Per comprendere bene la portata del fenomeno è però indispensabile fare alcune precisazioni: la
violenza sessuale deve essere intesa come
mezzo di sottomissione e
soggezione operato contro soggetti vulnerabili. Pertanto, è necessario abbandonare la convinzione che si tratti unicamente di un atto basato sul desiderio sessuale. I danni provocati alle vittime, oltre a quelli
fisici, che vanno dalle lacerazioni alla diffusione delle malattie, molte delle quali in grado di poter compromettere lo svolgimento di future gravidanze, riguardano anche la
sfera psicologica: dai
suicidi alle conseguenze della sindrome da
stress post traumatico, al nascere di
psicosi e di altre gravi
patologie. Alla luce di ciò, quello che accade ai
Rohingya va inquadrato nei crimini contro l'umanità e nelle violazioni dei diritti umani. La missione delle
Nazioni Unite aveva già documentato, in un precedente rapporto, altri gravi abusi perpetrati a
Rakhine nel
2016 ed episodi simili, compiuti negli stati di
Kachin e
Shan. La
violenza sessuale è diventata, perciò,
'segno distintivo' delle operazioni militari in questi territori. Nonostante il
rapporto della
missione Onu parli chiaro, il governo e le forze armate del
Myanmar hanno decisamente negato di aver compiuto violazioni dei diritti umani, affermando che le operazioni militari a
Rakhine erano giustificate e compiute in risposta agli attacchi degli
insorti rohingya. "La violenza sessuale è il risultato di un problema più ampio di disuguaglianza di genere e mancanza dello stato di diritto", afferma il rapporto, rilanciato e approfondito da
Radhika Coomaraswamy, noto avvocato dello
Sri Lanka che fa parte della triade di esperti internazionali della missione e che, durante una conferenza stampa presso la sede delle
Nazioni Unite a
New York ha dichiarato: "
Il quadro discriminatorio di leggi e pratiche, anche in tempo di pace, contribuisce e aggrava la violenza contro le donne in tempo di guerra". Coomaraswamy ha anche ribadito la necessità di istituire un
"meccanismo internazionale", come ad esempio un
tribunale internazionale, per processare autori e mandanti delle violenze. L'avvocato ha poi continuato, dichiarando
"l'uccisione diffusa e sistematica di donne e ragazze, la selezione attenta di donne e ragazze in età riproduttiva per lo stupro, gli attacchi a donne in gravidanza e a bambini, il marchio fisico lasciato sui loro corpi, che presentano segni di morsi sulle guance, collo, seno e coscia, oltre che ferite così gravi da menomare le vittime, non rendendole in grado di avere rapporti sessuali o di concepire, incutendo loro il timore che non sarebbero più in grado di avere figli. Tali violenze sono possibili solo in un clima di tolleranza e impunità di lunga data, in cui il personale militare non ha ragionevole paura della punizione o dell'azione disciplinare. Quindi riteniamo che, nel caso dei Rohingya, l'intenzione sia di distruggere la popolazione, inviarli, farli fuggire". In risposta a questo e a un altro rapporto della missione, all'inizio di questo mese sui presunti responsabili delle attività militari delle forze armate, il
ministero degli Esteri del
Myanmar ha affermato che, stabilendo la missione conoscitiva, il
Consiglio per i diritti umani delle
Nazioni Unite "ha superato il suo mandato e ha violato i termini e le pratiche di legge. Non riconosciamo né la missione conoscitiva, né il rapporto che ha prodotto. Il governo del Myanmar respinge categoricamente l'ultimo rapporto e le sue conclusioni". Intanto, la violenza contro i
Rohingya è
aumentata notevolmente, a seguito di una brutale campagna di
'controinsurrezione', che ha portato oltre
700 mila abitanti dei
Rohingya a rifugiarsi nel vicino
Bangladesh, dove vivono ancora in condizioni al limite. Nonostante sia stata pianificata un'operazione di rimpatrio in
Myanmar, nessuno si è presentato per essere riportato indietro. E questo è un gesto esaustivo per definire la condizione della popolazione dei
Rohyngia.