Difficilmente, nel panorama letterario odierno, capita di incontrare una scrittura così potente, precisa e lirica quale quella di
Claudia Durastanti. La scrittrice, già a partire dal suo esordio nel
2010 con
'Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra' (Marsilio), mostrava in modo netto il suo talento, vincendo il
Premio Castiglioncello Opera Prima e il
Premio Mondello Giovani. In seguito, con
'A Chloe, per le ragioni sbagliate' (Marsilio, 2013) e
'Cleopatra va in prigione' (minimum fax, 2016), non hanno fatto altro che confermare e consolidare quanto di buono vi era nella sua prima prova.
'La straniera', pubblicato da
'La nave di Teseo' (2019) è il romanzo con cui la
Durastanti è stata scelta tra i candidati del
Premio Strega. Si tratta di un
memoir, un'autobiografia se vogliamo, ma questa definizione sarebbe del tutto riduttiva: soltanto in superficie potremmo parlare di genere memorialistico. Il libro, infatti, già a partire dalla sua organizzazione in capitoli dimostra la sua originalità: la divisione in sezioni che ricordano le voci di un oroscopo
(Famiglia, Viaggi, Salute, Lavoro & Denaro, Amore) crea nel lettore uno straniamento. Le vicende autobiografiche raccontate dalla scrittrice sono inframmezzate da incursioni saggistiche, riflessioni filosofiche che portano il romanzo a stratificarsi su diversi livelli. Poiché, come scrive la stessa autrice:
"Rileggere te stessa significa inventare quello che hai passato, individuare ogni strato di cui sei composta". E una biografia è non altro che "la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato". Partendo dal primo incontro, quasi magico, fiabesco, dei due genitori a
Roma, entrambi
non udenti, la
Durastanti ripercorre le memorie della sua famiglia: dalla
Basilicata, per la precisione
San Martino d'Agri, paese d'origine della madre, a
Monteleone di Spoleto, in
Umbria, dove ha trascorso la sua infanzia il padre, fino agli
States di
Brooklyn. Vengono toccati temi importanti, come la disabilità, la migrazione e l'identità plurale, franta, stratificata, di chi ha vissuto in più posti nel corso della vita, sentendosi forse il più delle volte
'straniero', che secondo la voce narrante
"è una parola bellissima, se nessuno ti costringe a esserlo". La
Durastanti, nata a
Brooklyn nel
1984, ha fatto tesoro della sua esperienza biografica per costruire una prosa densa e ricca, senza sbavature. Un linguaggio che riesce a essere lirico e, nello stesso tempo, votato all'osservazione, all'acutezza di riflessioni saggistiche, culturali e antropologiche sempre pertinenti e interessanti. Ed è proprio il linguaggio ad attivare un processo di distanziamento dagli
"astri superiori e le sostanze ingovernabili" dei genitori, per far approdare la voce narrante a un principio ordinatore: una chiarificazione dell'esistenza. Molto singolare è il punto di vista attraverso cui l'autrice si confronta con la disabilità dei genitori. Se, infatti, questi ultimi sono rappresentati come persone che affrontano la loro condizione di
sordità con incoscienza e non con dignità e coraggio, come vuole lo stereotipo, lo sguardo della protagonista, depurandosi di consuetudine, si fa carico il più delle volte di
empatia. A tal proposito, si segnala l'episodio in cui la
Durastanti visita, nel
2017, una
camera semianecoica: una stanza che annulla ogni riflessione del suono, simile a quella che richiese
John Cage per ascoltare il
silenzio perfetto. In tale situazione, la voce narrante ripensa al suo passato e al fatto che i suoi genitori
"hanno sempre vissuto in una stanza come quella": uno dei momenti più toccanti e alti del libro. Altro tema portante del romanzo è
l'amore, a cui è dedicata, in particolare, l'ultima parte. Amore che però è deprivato di ogni
sentimentalismo o qualsivoglia
stereotipo romantico. La scelta tra innamorati avviene per riconoscimento e somiglianza (caso emblematico è dato proprio dai genitori di Claudia), non a causa di
destino o
predestinazione, bensì per ragioni di
sopravvivenza, per sviluppare
"una forma di resistenza comune, una difesa contro le offese del mondo".