Giorgio MorinoQuanto segue è un ricordo. Ogni anno, in questo periodo, si celebra la memoria dei milioni di innocenti morti senza motivo, per quella follìa che ha cancellato un'intera generazione dalla faccia della Terra. Quando ci si confronta con un lutto, un modo per elaborare la sofferenza è quello di aggrapparsi ai ricordi con forza e fare in modo che non muoiano mai. Il 27 gennaio porta questo con sé: il ricordo di un popolo cancellato dall'esistenza, ma non dalla Storia. Esistono, però, molte vicende che, allo stesso modo, non debbono essere dimenticate. Questa è la storia di Emilio Spalvieri. Nato a Roma nel 1920, si ritrovò prigioniero l'8 settembre 1943 delle truppe tedesche a Bolzano. Sopravvissuto alla prigionia, diversamente da molti altri riuscì a ritornare a casa dalla famiglia, ricominciare gli studi e laurearsi in economia, per poi iniziare una brillante carriera che lo avrebbe portato a diventare direttore generale del ministero delle Finanze fino al 1977, costruendosi al contempo una meravigliosa famiglia della quale, fortunatamente, mi sono ritrovato a far parte. Emilio Spalvieri, infatti, era mio nonno. Quando ero un bambino, intorno ai 10 anni, avevo sentito qualche racconto sui suoi trascorsi in guerra, sul suo passato e sulla sua prigionia, ma l'età e l'affetto mi avevano sempre impedito di affrontare l'argomento. Un giorno, però, decisi che era finalmente giunto il momento di approfondire questa storia e chiesi a mio nonno di raccontarmela, domandandogli il permesso di registrarla. Per anni, ho creduto di aver smarrito il nastro della registrazione, ma proprio qualche giorno fa sono riuscito a ritrovarlo. La sua storia è quella di tanti soldati che si sono ritrovati in quell'inferno che fu l'Italia del 'post-armistizio'. E raccontarla può essere un modo per rendere giustizia alla memoria di chi ha vissuto una simile sofferenza: un dolore parallelo, meno 'pubblicizzato'. Tale asserzione è fatta senza intento polemico nei confronti delle sofferenze del popolo ebraico, quanto piuttosto verso chi ha spesso ignorato quest'altro 'lato' della Storia. Prima di procedere vorrei, tuttavia, ringraziare il dottor Spalvieri per aver avuto pazienza con quel ragazzino petulante con un registratore in mano e aver superato il dolore del ricordo per raccontargli questa storia. Questo è il mio modo per rendergli omaggio, a 9 anni dalla sua scomparsa.

Emilio Spalvieri: "Ho frequentato il corso per allievi ufficiali per una durata di sei mesi a Fano, nel 132° reggimento di fanteria della Brigata Brennero. Terminato il corso, sono stato assegnato al battaglione di Bolzano proprio l'8 settembre 1943, giorno in cui fu proclamato il 'Programma Badoglio' (l'armistizio) a seguito del quale gli americani diventavano nostri alleati e i tedeschi nostri nemici. La popolazione di Bolzano si dimostrò subito ostile nei nostri confronti: nella città, gli abitanti giravano armati con al braccio la fascia con lo stemma del III° Reich. Fummo subito catturati e portati in una scuola, 'sorvegliati' dalle SS. E solo poche persone locali ci davano sostegno. Rimanemmo nella scuola per due giorni. In seguito, fummo caricati su alcuni camion e portati a Innsbruk, in Austria, dove ci rinchiusero in una caserma. Ad Innsbruk, i tedeschi non si aspettavano il nostro arrivo e dovettero attendere gli ordini dal comando centrale per mandarci con dei camion a Rum, in una caserma di SS lituani ed estoni. Restammo qui per due giorni, trascorrendo le ore diurne al ghiaccio e la notte in baracche in cui la temperatura non cambiava di molto. Dopo, fummo caricati in carri bestiame e portati a Stablak, in Lituania. Questo fu il primo vero campo di concentramento, dove fummo immatricolati e iscritti nei registri della Croce Rossa del campo (il mio numero era 6906/1°). Restammo in quel campo circa quattro mesi. Il freddo glaciale fu la cosa che ci colpì subito, vista anche la posizione geografica e il nostro abbigliamento non adatto alla temperatura. Il campo di Stablak era un 'lager' solo per ufficiali costruito da poco, non era attrezzato e noi prigionieri dovevamo svolgere tutte le mansioni: gli ufficiali italiani erano per la maggior parte adibiti al servizio di cucina. La mattina venivano svegliati molto presto e veniva fatta la 'conta', baracca per baracca. Poi ci veniva dato un 'gavettino' in alluminio con una tisana di erbe, forse tiglio, non zuccherata, abbastanza saporita e soprattutto calda. Il pranzo e la cena consisteva in una zuppa calda di rape liofilizzate con acqua e una forma di pane rettangolare, che veniva divisa fra 13 persone che componevano la baracca. La divisione veniva fatta in maniera molto precisa: prima venivano tagliate le fette a 'occhio'; poi venivano pesate con una bilancina da campo da noi costruita, formata da un bastoncino con attaccati due pezzi di spago che terminavano con due ganci. Il pane veniva pesato meticolosamente e, nel caso, venivano tolti dei piccoli tozzi. Poi, colui che aveva tagliato e pesato il pane, ad alta voce, assegnava la porzione a tutti i componenti della baracca. La giornata, per lo più, la passavamo sdraiati su i pagliericci per mancanza di forza e per il freddo. Ma questo non far niente ci portava a prendere ogni giorno un po' di volontà e di rispetto in noi stessi. Dopo circa due mesi fummo trasferiti con un altro carro bestiame a Deblin Irena, in Polonia, nella fortezza di Ivangurud, allo Stalg 307. Il viaggio durò sette giorni e fu terribile: i vagoni venivano riempiti di persone in maniera tale che non era possibile neanche stendersi. E si possono immaginare anche le condizioni igieniche. Giunti alla fortezza, fummo sistemati in stanzoni con a terra del pagliericcio e qualche letto a castello. Le mura della fortezza, spesse un metro, ci salvarono dalle intemperie, ma solo in minima parte dal freddo della Polonia. La fame era sempre più forte, le zuppe non bastavano più e nelle camerate si poteva sentire il rumore dei nostri stomaci che si 'torcevano'. Qui, l'esercito tedesco, o meglio l'esercito formato da soldati tedeschi, austriaci, polacchi, lituani, iugoslavi, estoni e lettoni, si divertivano a fare la 'conta', cioè l'appello nominale di tutti i prigionieri, che durava anche tre ore, durante la notte. Ci trovavamo in pieno inverno, con molta neve. Noi soldati avevamo l'avevamo spalata dai passaggi che abitualmente usavamo, ma durante la 'conta', alle tre o alle quattro di notte, ci dovevamo precipitare in un campo coperto al di fuori della fortezza e del filo spinato, al freddo, con la neve che ci arrivava ai polpacci. Intanto, i soldati perquisivano in maniera accurata tutte le camerate per vedere se era stato rubato qualcosa. Se ciò avveniva, per punizione ci lasciavano al freddo per altre tre ore. Restammo a Deblin Irena fino al 23 aprile 1944. Poi, fummo trasferiti, sempre con carri bestiame, in Germania, nell'Oflag 6 di Oberlangen, dove rimanemmo fino al 10 giugno del 1944 per essere di nuovo trasferiti nello Stalag 6/G di Duisdorf bei Bonn an Rhein. A Duisdorf, per la prima volta dal nostro campo di prigionieri di guerra, vidi un campo di sterminio ebreo, con il forno crematorio in funzione. A Duisdorf, io e gli altri 200 ufficiali ci rifiutammo di prestare lavoro volontario e fummo trasferiti al campo di concentramento internazionale di Colonia. All'inizio, ci sembrava una 'pacchia': infatti, riuscivamo a mangiare una doppia razione di zuppa, quella nostra e quella degli ufficiali francesi e slavi che avevano il cibo fornito dalla Croce Rossa Internazionale. Con noi soldati italiani, la Croce Rossa Internazionale non ha mai voluto parlare, poiché ci considerava internati politici, non prigionieri di guerra e non rientravamo nella loro missione. La 'pacchia' durò fino a quando la notizia della doppia razione arrivò all'orecchio del comandante tedesco, che ci proibì di farlo ancora. Durante questo periodo, noi prigionieri italiani venivano chiamati a dei colloqui con ufficiali delle SS e un gerarca fascista dove, sotto minaccia, ci veniva chiesto di aderire alla Repubblica sociale di Salò. Nessuno di noi aderì. E, per questo motivo, su ordine del generale Kliner fummo deportati in un campo di punizione (Straflager) che era stato costruito all'interno della fabbrica di fibre chimiche 'Glanzstoff-Courtaulds' di Colonia: un 'lager' circondato da un alto reticolato elettrificato sotto il controllo della Gastapo, che si avvaleva all'occorrenza della SS. C'è da ricordare che da quando Hitler aveva passato il comando dei prigionieri a Himmler e quest'ultimo lo aveva trasferito al Generale Berger delle SS, lo scopo era divenuto l'eliminazione degli ufficiali italiani, in quanto traditori. In questa fabbrica, noi ufficiali seguivamo la lavorazione dei fili di cellulosa che venivano immersi nell'acido cloridrico (da qui derivarono, in seguito, i miei problemi con gli occhi), per poi diventare seta artificiale, avvolta in rotoli. In seguito, fummo trasferiti in un secondo reparto, per fabbricare dei paracadute. Oltre a lavorare ogni giorno per dodici ore nella fabbrica, dovevamo subire le minacce e le botte degli SS, sia la mattina, sia la sera. Gli ordini venivano dati dal sergente Straal: un sadico e demente 'aguzzino' nazista, incattivito dalle disfatte belliche e dalle molte ferite e invalidità riportate sul fronte russo, che gli avevano menomato un occhio, una mano e una gamba. Egli era divenuto il padrone delle nostre vite: subivamo minacce di morte con scavo di fosse da utilizzare dopo qualche sommaria esecuzione; continue legnate, con bastoni ortopedici rotti sui nostri corpi; pistole sempre in pugno con il colpo in canna; stangate coi calci dei fucili; punizioni nella 'segreta di rigore', costituita da un umido e gelido sotterraneo con la sola luce del buco della porta, senza pane e acqua per diversi giorni; adunate interminabili per appelli della durata di diverse ore, in piedi a braccia alzate sotto la minaccia di armi puntate. Si arrivò al punto che gli stessi militari tedeschi, un giorno, si rifiutarono di eseguire gli ordini criminali del sergente 'pazzo'. E due dei 'nostri' furono fucilati per non aver obbedito. Rimanemmo in questo 'Straflager' fino al 15 settembre del 1944, quando l'esercito americano fece un attacco ad Aachen (Aquisgrana), a una trentina di chilometri da Colonia. Ciò spaventò i tedeschi: ci fecero alzare alle tre di notte, lasciare nelle baracche le poche cose che avevamo, venne distrutta gran parte della documentazione che provava le loro angherie e ci ordinarono di metterci a 'marcia forzata' in direzione della Germania centrale. Dovevamo camminare per forza: chi si fermava per stanchezza veniva subito giustiziato. Camminammo per due giorni. Durante il terzo, arrivammo a un campo grande come tre stadi di calcio e ci unimmo ad altri prigionieri di altri campi. Visto che non erano arrivate le divise per noi, ci fecero indossare delle tute sulle quali furono dipinte delle strisce bianche, in modo che fossimo riconoscibili. Tuttavia, siccome ogni cento chilometri veniva cambiata la scorta, noi riuscimmo a disfarci di queste tute e, così facendo, ci mescolammo con gli altri prigionieri. Dopo due giorni fummo portati ad Hemmer. Si trattava di un vecchio 'tubercolosario' russo, ancora in funzione, che serviva anche da prigione. Ci rinchiusero in un pezzo di terreno sempre protetto da filo spinato. La notte, dovevamo dormire all'aperto per evitare l'attacco famelico delle cimici. Rimanemmo qui per circa quattro giorni, per poi essere portati a Wietzndorf e sistemati in baracche. Un giorno, io e una parte dei miei commilitoni  fummo trasportati d'autorità con dei carri bestiame e poi a piedi, al campo di Stadt des KDF Wagen città nazista sede della fabbrica sella Volkswagen (che dopo la guerra ha ripudiato il vecchio nome per quello di Wolfurg). Furono 72 giorni infernali: la fabbrica era stata bombardata e doveva riprendere la produzione in breve tempo. Così, appena arrivati, ci riunirono tutti all'aperto e divisero i prigionieri secondo la loro professione: dottori, infermieri, ingeneri. Io pensavo che avessero risolto la loro situazione con un posto al caldo e con cibo in abbondanza. Invece, furono messi a scavare delle grandi fosse biologiche, collegate tra loro da assi metallici. Gli unici a non avere una vera qualifica erano gli studenti in economia come me. Così, fui messo, insieme ad altri, fuori della fabbrica a togliere i detriti con pala e piccone. Il nostro abbigliamento era molto leggero, il freddo era tanto e il lavoro molto pesante: dalla 7 della mattina fino a sera. Così, quando i tedeschi chiesero se tra noi c'erano delle persone che si intendevano di elettricità, mi feci avanti senza sapere nulla sulla materia. Fui incaricato di togliere, insieme ad altri tre prigionieri, i cavi dell'alta tensione bruciati. Andò bene per circa dieci giorni: il nostro lavoro consisteva nello staccare questi cavi bruciati che erano vicino ad delle tubature di acqua calda, così ogni tanto appoggiavamo le mani riscaldarci. Il problema si fece evidente quando arrivammo a una centralina, dove entravano questi cavi che erano fissati a dei bulloni. Provai a muovere il tubo, per individuare il filo da staccare e quando fui sicuro con il cacciavite cercai di toglierlo. Ci fu una enorme fiammata che mi buttò per terra, rendendomi completamente cieco. Ricordo solo le tante botte, i calci dei fucili e le urla di sabotaggio. Volevano uccidermi subito, ma mi salvò il capo elettricista tedesco della fabbrica, che disse alle SS che non ero un sabotatore ma un cretino o altro, in tedesco. Fui condannato e rimandarono ogni decisione a causa della mia cecità e delle mie condizioni fisiche. Fui portato all'ospedale di Duisdorf, dove il dolore agli occhi era atroce, ma dopo lunghi mesi dormivo su di un letto comodo e con delle lenzuola. Passata la cecità e dopo avermi 'rattoppato' alla meglio fui rimandato in fabbrica, in attesa della sentenza, mentre alcuni dei miei compagni di prigionia furono mandati a Neubearbutung, un campo di eliminazione. Il nostro gruppo fu liberato il 16 aprile 1945 dalle Forze armate americane. Al ritorno in Italia, denunciai le atrocità del sergente Straal presso il Distretto militare di Roma, ricevendo scarse attenzioni. Feci presente del lavoro 'coatto' svolto sotto il controllo delle SS e degli atti di resistenza, del sabotaggio, anche se involontario, che tutavia aveva impedito lo sterminio dell'intero gruppo, evitato solo dall'avanzata delle truppe alleate".


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Roberto - Roma - Mail - lunedi 23 gennaio 2017 17.6
Questa settimana avete pubblicato una serie di articoli tutti interessanti e condivisibili. Grazie di cuore.


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