Chiara Genovese

L'ultimo episodio della serie 'L'amica geniale: storia della bambina perduta', ultima stagione della celebre fiction Rai in collaborazione con Hbo, è andato in onda di recente tra critiche ed entusiasmi sui social e, fino alla fine, ha continuato a mietere record di ascolti. Non solo: la serie ha continuato a far discutere, influenzando il grande pubblico ben oltre il suo periodo di trasmissione. Un successo pari solo a quello dei romanzi da cui è tratta: il 'New York Times' ha addirittura proclamato 'L'amica geniale' di Elena Ferrante (Edizioni e/o, 2011): "Il miglior libro del ventunesimo secolo". Chi ha letto la tetralogia sa quanto la scrittura della Ferrante possa essere suggestiva, quanto quest'autrice esplori a fondo la psicologia dei suoi personaggi e quanto questi, su carta, appaiano anche più vivi e convincenti rispetto alla serie televisiva. La quale, per quanto eccellente, apporta tagli e modifiche certamente necessarie, ma che spesso tolgono complessità alla storia. Sebbene de 'L'amica geniale' si parli moltissimo ormai da diversi anni, restano ancora delle perplessità riguardo ad alcuni 'punti-chiave' della trama. Per esempio, ci si continua a chiedere chi, tra le due protagoniste, sia "l'amica geniale" del titolo. E nonostante la risposta possa apparire ovvia, sui social circolano diverse teorie al riguardo. Al centro del dibattito vi è poi l'approccio di Elena Ferrante alle questioni di genere: tema rilevante nel romanzo. L'autrice racconta una realtà difficile - quella di un quartiere povero e degradato nella Napoli del secondo dopoguerra - descrivendo gli uomini come violenti più per costume che per vera crudeltà e donne fagocitate dagli uomini della loro vita e dal loro stesso ruolo subordinato, fino al punto di perdere i propri connotati femminili. Allo stesso tempo, ella affida proprio a un personaggio maschile, quello di Enzo Scanno, il ruolo di unica figura interamente positiva della saga. De 'L'amica geniale' si parla spesso come di un'epopea femminista, in cui le due protagoniste, ciascuna a suo modo, lottano per liberarsi del dominio maschile e per autodeterminarsi, nel loro lavoro come nella vita personale. Se così fosse, entrambe avrebbero, più o meno colpevolmente, fallito: nel corso del racconto sono proprio loro due, Lila e Lenù, a prendere decisioni che portano ai repentini cambiamenti nelle loro vite e, di conseguenza, alle avvincenti svolte nella trama. Ma tali decisioni sono molto spesso prese per amore, timore o desiderio degli uomini che le circondano. Non è di loro che le due amiche geniali intendono liberarsi, ma della miseria e dell'ignoranza in mezzo a cui sono cresciute, vere responsabili del loro malessere, dei soprusi subiti e perfino della violenza maschile. Quella di Elena e Lila è una storia di riscatto sociale e di rottura delle convenzioni dell'epoca, che ciascuna attua a modo proprio: l'una abbandonando Napoli, coltivando se stessa attraverso gli studi e, soprattutto, scrivendo; l'altra, sottraendosi a un marito violento e ricostruendo la propria vita - e la propria indipendenza economica - insieme a un nuovo compagno, stavolta scelto liberamente. Eppure, dal vortice oscuro del rione dove sono nate, sembra impossibile fuggire davvero. Elena, che pure ha vissuto l'infanzia e l'adolescenza non desiderando altro che lasciarselo alle spalle, dopo un lungo periodo di lontananza, finisce per ritornarci e col crescere lì le proprie figlie. E anche quando se ne allontana, continua a portarselo dentro nei modi, nella voce, nel costante senso di inadeguatezza che le impedisce, per tutta la vita, di sentirsi davvero liberata. Lila, invece, si autoreclude nella convizione di riuscire a cambiare la realtà, ma perfino lei, che sembra in grado di fare qualunque cosa, finisce per essere sopraffatta da un ordine di cose spietato e immodificabile. Tutti, uomini e donne, sono vittime prima ancora che dei fratelli Solara, veri 'villain' della storia, del proprio luogo di origine, degli insegnamenti ricevuti durante l'infanzia, in definitiva della propria stessa natura, che li condanna a grandi e piccole meschinità da cui solamente Enzo sembra immune. Ed Enzo, nei romanzi, viene descritto come un uomo di carattere eccezionalmente chiuso, concreto, razionale perfino nell'esprimere i sentimenti d'amore, come a suggerire che, per mettersi al sicuro dall'influenza venefica del rione, sia necessario rendersi impermeabili anche a tutto il resto. Più che una storia di rivalsa femminile - che, a conti fatti, non si concretizza mai del tutto - 'L'amica geniale' è un grande romanzo sulla miseria e sull'impossibilità di scrollarsene di dosso i segni, anche quando poveri non si è più. In questo, la saga non può che ricordare al lettore/spettatore i grandi romanzi ‘veristi’ di Giovanni Verga, dove ogni tentativo di affrancarsi dalla miseria è vano e dove sembra, anzi, che il destino si accanisca con particolare crudeltà su quanti manifestano l'ambizione di migliorare il proprio status economico e/o sociale. Come ne ‘I Malavoglia’ o in ‘Mastro don Gesualdo’, anche ne 'L'amica geniale' il desiderio di emancipazione viene sistematicamente frustrato dalla rigidità del contesto sociale, il quale esercita una forza inesorabile nel riportare i personaggi alla loro condizione originaria. Il romanzo della Ferrante sembra, a più riprese, costruito intorno all'ideale dell'ostrica: una delle delle metafore più emblematiche del ‘verismo’ elaborata dal Verga. Infatti, l'ostrica saldamente ancorata allo scoglio è simbolo della condizione umana di coloro che, appartenendo alle classi popolari, trovano un equilibrio precario nella loro miseria. Quando tentano di staccarsi da questo 'scoglio' per inseguire ambizioni di riscatto sociale o economico, finiscono per essere travolti e distrutti dalle correnti avverse della società. Nella saga di Elena Ferrante, il rione napoletano diventa, dunque, lo ‘scoglio’ a cui i personaggi sono legati, volenti o nolenti. Lila e Lenù incarnano due modalità diverse di confronto con l'ideale dell'ostrica. La prima, geniale e ribelle, sceglie di affrontare il rione a testa alta sfidandone le regole, oppure cercando di affrancarsi attraverso il talento e l'ambizione. Tuttavia, nonostante i suoi sforzi, la sua esistenza è costantemente segnata dal fallimento e dalla violenza del contesto sociale, che la richiama con forza alle sue origini. Lila è l'ostrica che tenta di staccarsi, ma le correnti del rione la risucchiano sempre indietro, facendole pagare il prezzo della sua ribellione. Elena, invece, rappresenta il desiderio di fuga attraverso l'istruzione e la cultura. La sua ascesa sociale, ottenuta con sacrifici e determinazione, sembra inizialmente riuscire a emanciparla dal rione. Tuttavia, anche lei non può mai realmente liberarsi delle sue radici: il rione, nel suo rapporto con Lila, continua a esercitare un'influenza profonda su di lei, ricordandole costantemente che, come per l'ostrica 'verghiana', il legame con lo scoglio è indissolubile. In entrambi i casi, il rione napoletano opera come una forza deterministica, analoga alla società descritta dal Verga. Le dinamiche sociali, economiche e culturali del rione limitano le possibilità di emancipazione e riproducono un ciclo di miseria e subordinazione. Proprio come nei romanzi 'verghiani', l'idea che l'individuo possa superare il proprio destino appare come un'illusione crudele, spezzata da un contesto che domina con brutalità ogni ambizione personale. Elena e Lila, come i 'vinti' descritti da Verga, sono costrette a confrontarsi con la consapevolezza che ogni tentativo di riscatto si scontra con una realtà più forte della volontà individuale. Il rione, come lo scoglio, è una prigione, che protegge e distrugge al tempo stesso. Eppure, proprio sul finale della saga della Ferrante, si accende una scintilla di speranza che nell'opera di Verga era completamente assente. La possibilità di spezzare il vincolo apparentemente ineluttabile con lo 'scoglio' è incarnata dalle figlie di Elena, cresciute anch'esse all'interno del 'rione-prigione' e invischiate nelle sue dinamiche tossiche, dalle quali, divenute ormai giovani donne, riescono tuttavia a uscirne affrancandosi dal peso delle radici, che hanno segnato inesorabilmente la vita della loro madre. La parabola delle figlie di Elena rappresenta un elemento di rottura rispetto alla visione deterministica che accomuna la Ferrante al Verga. Esse, a differenza delle protagoniste, sembrano immuni al richiamo del rione: il loro percorso le conduce verso una reale liberazione, sia geografica, sia psicologica. Mentre Lila e Lenù vivono perennemente intrappolate tra il desiderio di fuga e il richiamo delle origini, le figlie incarnano una nuova prospettiva: quella di un futuro svincolato dalle oppressioni del passato. La liberazione delle tre figlie di Lenù è fortemente simbolica: le ragazze rappresentano il processo sociale e culturale che, seppur lento e doloroso, è possibile. Attraverso di loro, la Ferrante suggerisce che la forza del rione, per quanto radicata e soffocante, non è eterna. Le nuove generazioni possono scegliere di spezzare la catena e costruire una vita diversa, al di fuori delle regole che hanno governato il mondo della loro madre. Tuttavia, come se la liberazione delle tre giovani richiedesse uno scotto di sangue, il loro successo viene bilanciato dalla tragica sorte dei figli di Lila, Tina e Gennaro. Una perdita reale, nel caso di Tina, che scompare misteriosamente e simbolica, nel caso di Gennaro, il cui futuro sembra segnato dal fallimento e dall'incapacità di sfuggire alle dinamiche del rione, che rappresenta una contrapposizione amara: la chiara dimostrazione di come la saga della Ferrante non si abbandoni mai completamente all'ottimismo. Per ogni emancipazione c'è un prezzo da pagare; per ogni speranza c'è una tragedia che ne limita la portata. La scomparsa di Tina, avvolta nel mistero e mai risolta, diventa il simbolo dell'impossibilita di un riscatto totale: è come se il rione non potesse tollerare una completa liberazione dalle sue catene. Di questa sparizione non si trova mai un colpevole, quasi a voler suggerire che il responsabile è il rione stesso, che si vendica su Lila per la sua genialità e il suo spirito di ribellione, punendola nel modo più crudele possibile. Allo stesso tempo, Gennaro, cresciuto nello stesso ambiente delle figlie di Lenù, non riesce a sottrarsi all'influenza del rione. Simbolicamente, il suo smarrimento riflette l'idea che non tutti siano destinati, o capaci, di spezzare il legame con lo 'scoglio'. Dopotutto, le figlie di Elena, in particolar modo le due maggiori, appaiono fin dalla nascita predestinate al successo. A differenza dei figli di Lila, esse non appartengono completamente al rione: per linea paterna, sono collegate a un altro mondo, quello borghese e intellettuale di Pietro Airota e della sua famiglia. Questa connessione con una realtà privilegiata, distante dalle miserie e dalle dinamiche opprimenti del rione, rappresenta per loro una sorta di privilegio innato. Una possibilità di fuga che sembra scritta nel loro destino.


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