La sacrosanta distinzione tra
etica della convinzione ed
etica del successo discende da un'antica
utopìa: quella dell'avvento di
un'umanità altera, rigenerata, perfetta. Chi vuole ottenere
successo, in generale cerca un punto d'incontro con i gusti e le tendenze delle masse, mentre chi segue seriamente una convinzione profonda mira a obiettivi più lontani e distanti, sollevando il
'collo' della razionalità al di sopra della
'foresta', come le giraffe. La tendenza, o lo strumento, di
un'etica della convinzione è dunque
l'estetica: la teorizzazione
'fotografica' di un
'sogno espressionista', o qualcosa del genere. Chi, invece, ragiona secondo
un'etica del successo appare maggiormente
realista, analizza alcune movenze di fondo della società e le asseconda, più raramente le
modifica, mutuandone la forma al fine di
'differenziarle', rigenerandole. Ora, sotto il profilo filosofico, il problema che si pone è il seguente: chi tende a compiacere le masse con
'belle parole' non solo compie un'opera di
corruzione, ma trascina verso il basso l'intera società, proponendo modelli e riti sempre più
falsi, o quanto meno
ambigui, alla collettività. Ma assuefarsi alla menzogna, alle ipocrisie, alle vuote ritualità può nascondere
finalità atterrenti, come dimostrato dal
fondamentalismo islamico o, più in generale,
dall'integralismo religioso. Per tali motivi, lo
'spunto' che proponiamo in questo primo numero del
2017 di
'Periodico italiano magazine' non è affatto casuale:
l'estetica non è estranea
all'etica, bensì ne è parte integrante e indissolubile. Sotto il profilo sostanziale, possedere una
convinzione differenzia molto il singolo individuo dalla massa, rendendolo rappresentante di una
'crisi della crisi'. Quest'ultimo è un concetto molto presente tra le coscienze più avvertite del mondo intellettuale, poiché ci si è accorti che
l'innovazione tecnologica in atto
'scavalca' le vecchie
'figure di crisi', sgombrando il campo da questioni e problemi al fine di esautorarli. Si tratta di una modificazione
'spiazzante', di un'imprevista tendenza utopistica della
globalizzazione, la quale sta generando una
realtà a due facce, totalmente contrastanti tra loro: da una parte, quella
dell'avanguardia tecnologica; dall'altra, quella assai più fosca della scomparsa di numerose
specializzazioni e
mansioni. L'avvento dell'epoca
digitale ha già causato il declino di alcune professioni, come per esempio quella del
fotografo. Anche in questo caso, non si è trattato della scomparsa degli aspetti di
'abilità' o di
virtuosismo artistico, teorico ed estetico, di tale professione, bensì del suo
'mercato' nei suoi aspetti più strutturalmente
artigianali, consumistici, commerciali. L'avvento di una nuova tecnologia è riuscita, insomma, a
'scavalcare' il prodotto stesso, rimpiazzandolo con un altro a basso costo. Di qui, sorge una constatazione: lo
sviluppo tecnologico non persegue affatto l'incremento delle opportunità o la nascita di
nuovi mercati, bensì quello della
marginalità dell'occupazione lavorativa. In sostanza, il
progresso vorrebbe liberare l'uomo dalla
schiavitù del lavoro, ma dopo aver individuato tale obiettivo di prospettiva, dimentica di dover dare una nuova
'forma', una modalità, un
'come', ai distinti
'passaggi intermedi' del processo produttivo. Ecco spiegato perché torna assai comoda la
'chiave' interpretativa della vecchia cultura socialista del
'900, che non è affatto un
'cane morto': al contrario, essa è la sola tradizione in grado di avvertire l'umanità dei pericoli di
'antitesi negative' che possono derivare da uno
sviluppo disordinato o 'malgovernato'. Parafrasando
Pasolini: uno
sviluppo distante intere galassie dal
vero progresso. Fu esattamente questa l'intuizione di
Fritz Lang allorquando immaginò una grigia realtà industriale: un'ispirazione che lo condusse a dar vita al geniale film
'Metropolis'. La
'crisi della crisi' sostanzialmente salta a più pari ogni mediazione, eliminando, anche e soprattutto sul versante
'aziendalista', ogni possibilità di un nuovo
'contratto sociale'. In pratica, la
'crisi della crisi' è la
'vera crisi', poiché in essa non vi è alcuna alternativa, nessuna possibilità di organizzare una
risposta efficiente. E ciò rende necessarie, se non addirittura urgenti, nuove
'sintesi' di
compromesso. Ovvero, una nuova
'etica del successo', in grado di organizzare una risposta ai
radicalismi più
irrazionali e
astratti. La convinzione che lo
sviluppo tecnologico porti a
radiose 'albe' di progresso rischia di diventare un obiettivo rimandato
'ad libitum', poiché ciò che rende maggiormente
umana ogni
etica è proprio la sua capacità di far riferimento a
categorie reali, non certo di andare a generare
l'apocalisse della noia e della
disoccupazione di massa. L'umanità ha dunque bisogno anche di
un'etica 'altra': quella del
successo. La quale, se utilizzata correttamente, ha il pregio di determinare un
limite nei confronti di ciò che può condurci, pur in buona fede, verso ulteriori
'disastri'. Proprio
l'etica del successo è ciò che andrebbe rianalizzata e mutuata in quanto metodologia, poiché ha il merito di
'fissare' materialmente ogni tendenza, rendendola più vicina alle aspettative e ai bisogni delle masse. La
'nuova Metropolis' della
tecnologia rischia di trasformarsi in un processo già compiuto, nel quale nulla di diverso può accadere sotto la coltre della propria
'inumanità'. Lo
sviluppo, se assunto come
unica 'stella polare' di orientamento, può assumere connotati eccessivi, enfatici, persino angoscianti. Ma sotto il profilo dell'organizzazione di una
'risposta politica', in certi casi è sempre buona cosa
moderare il processo, facendolo passare attraverso formulazioni di
'sintesi' meno vaghe, più precise e definite, comprensibili e utili per tutti.
Diventando successo.
PER LEGGERE LA NOSTRA RIVISTA MENSILE CLICCARE QUI
Direttore responsabile di www.laici.it e della rivista 'Periodico italiano magazine' (www.periodicoitalianomagazine.it)
Editoriale tratto dalla rivista 'Periodico italiano magazine' n. 24 - gennaio 2017)