
Un
tappeto di specchi infranti, a rappresentare simbolicamente una società
‘segmentata’, in cui ogni valore è andato in frantumi. E una serie di
alberi tagliati alla base, per rammentarci come l’uomo sia capace unicamente a
‘tranciare’ di netto tutto ciò che è dono naturale,
‘disboscando’ alla radice ogni cultura e identità. Una scenografia assai funzionale a trasformarsi metaforicamente
nell’arredamento di una casa di campagna, o
nell’appartamento di una famiglia borghese, oppure ancora
nel classico ‘prefabbricato’ di un commissariato di polizia. Non si può non parlare di
‘Utoya’, la rappresentazione teatrale trasmessa in questi giorni su
Rai 5 e portata in scena con successo quest’estate al
‘Festival dei due mondi’ di
Spoleto da
Edoardo Erba e
Serena Sinigaglia - con la consulenza del giornalista
Luca Mariani, autore del volume
‘Il silenzio sugli innocenti’, edito da
Ediesse - senza notare, innanzitutto,
l’intelligenza essenzialista della scenografia creata da
Maria Spazzi. In scena, tre coppie di persone:
una famiglia borghese trasferitasi in provincia;
due fratelli di campagna rimasti orfani e disorientati dopo la perdita dei loro genitori; infine,
due poliziotti ‘ingabbiati’ nelle loro discussioni relative a regole e procedure
‘iperburocratiche’ e paralizzanti, poiché pensate unicamente per gestire
l’ordinaria amministrazione. Sei ruoli tutti ricoperti da due ottimi attori,
Arianna Scommegna e
Mattia Fabris, bravissimi nel riuscire a interpretare le caratteristiche peculiari dei distinti personaggi che si alternano sul palco. Sullo sfondo, la
strage efferata messa in atto con premeditazione il
22 luglio 2011 da
Anders Breivik, il quale, dopo aver fatto esplodere un furgone pieno di esplosivo nel centro di
Oslo al fine di concentrare il
‘grosso’ delle forze di pubblica sicurezza norvegesi verso la capitale, ha approfittato della confusione per recarsi indisturbato
sull’isola di Utoya e uccidere, uno a uno, con un fucile automatico di precisione,
69 giovani laburisti, riunitisi come ogni anno sull’isolotto per fare un po’ di campeggio estivo. Uno spettacolo ben recitato, che ha saputo fotografare i classici luoghi comuni di chi è talmente
‘disturbato’ dalla diversità da perdere di vista la
‘banalità del male’, dissimulata
dall’apparente normalità dei nostri vicini di casa. Una concezione imperniata attorno a convenzioni e consuetudini che divengono
barriere, meri
atteggiamenti di ‘facciata’ che rinchiudono la società all’interno di
stucchevoli compartimenti stagni. Perché il male, il più delle volte, proviene da dove meno ce lo aspettiamo. E le intuizioni più corrette sul comportamento altrui, spesso vengono in mente al personaggio generalmente considerato da tutti una sorta di
‘bordeline’, in un certo senso allo
‘scemo’ del villaggio, perché lo
spirito dell’Uomo non si rivolge ai
saggi e ai
dotti, ma ai
semplici e agli
umili. Il
formalismo ritualista non basta a guidare una società
‘svuotata’ di valori e contenuti. E l’eco dei
colpi di fucile di Breivik rappresentano il sostanziale
‘via libera’ di una modernità che non significa affatto
progresso, bensì ci sospinge verso
quell’eterno medioevo in cui i deboli sono sempre costretti a soccombere, in cui la
violenza può portare, ancora una volta, il suo
‘attacco’ più
folle e
irrazionale. La disobbedienza di una
figlia ‘viziata’ deresponsabilizza, in fondo, i
cittadini ‘perbene’ dal dramma dei
69 giovani socialisti impietosamente assassinati: l’importante è che certe cose non accadano
a ‘noi’; e i due fratelli,
‘provincialotti’ e
di campagna, restano prigionieri dei propri
‘luoghi comuni’, insegnati loro in quanto
rituali di comportamento che li conducono alla
superficialità; infine, gli
eccessi di ‘zelo’ e il
formalismo burocratico dei due
poliziotti formano la
giustificazione per
non decidere, lasciando sempre agli altri l’incombenza d’intervenire nelle situazioni più gravi, trovando nella
‘vuota forma’ un modo per
‘lavarsi’ la propria
coscienza. Il punto di vista fortemente critico di
Edoardo Erba e dell’ottima
‘mano di regia’ della
Sinigaglia emerge con chiarezza attraverso la bravura interpretativa dei
due attori in scena: nessuno si prende alcuna responsabilità all’interno di una società che genera
‘mostri’, poiché divenuta essa stessa
‘mostruosa’. Ai tempi della strage, qualcuno accusò i ragazzini accampati sull’incantevole isola norvegese di
scarso coraggio, per non essere riusciti a opporsi a
un pazzoide armato ‘fino ai denti’. Ebbene, proprio quell’accusa, mossa da
autentici ‘relitti umani’ che si credono
opinionisti e
giornalisti di successo, rappresenta perfettamente quel
conservatorismo ‘insano’ che conduce a giudicare il prossimo per giustificare ogni evento che ci pone, improvvisamente, di fronte alla nostra
stupidità, all’incapacità di comprendere veramente cosa sta accadendo
dentro di noi. Un processo di
‘disumanizzazione’ e di
distorsione di cui la
televisione e la società
dell’intrattenimento piccolo borghese è la principale
imputata, poiché annulla ogni valore
d’identità culturale trasformandoci in
‘audience’ passiva. Rendendoci peggiori persino rispetto ad
Anders Breivik che, per lo meno, è sempre stato consapevole di essere un
‘mostro’.