Si intitola
'Addii, fischi nel buio, cenni', Neri Pozza (pagine 384, 18 euro), l'ultimo libro di
Silvio Perrella che raccoglie i saggi scritti da nell'arco di trent'anni, molti dei quali pubblicati su
'Il Mattino' di
Napoli. È un viaggio in quella che l'autore chiama:
"La generazione dei nostri antenati". Il libro racconta una generazione di scrittori come
Italo Calvino, Leonardo Sciascia, Goffredo Parise, Beppe Fenoglio, Domenico ed Ermanno Rea, Danilo Dolci, Primo Levi, Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Lalla Romano e
Raffaele La Capria, in cui
'gesto stilistico' e
'gesto vitale' spesso coincidono o, almeno, si apparentano. Perché scrivere e vivere non erano per loro due fenomeni
disgiunti. Nati tra le due guerre mondiali, a volte nello stesso anno in cui nacque il
fascismo, questi scrittori ebbero la possibilità di essere giovani donne e giovani uomini in un momento in cui
l'Italia da
monarchica diventava
repubblicana e sembrava lasciarsi alle spalle il
retaggio del precedente
regime. E, chi in un modo, chi in un altro, hanno contributo, sia pure indirettamente, a scrivere la
Costituzione. Va subito detto che il libro di
Perrella si legge con lo stesso crescente interesse con cui si leggerebbe un
romanzo ambientato in
Italia prima e dopo il secondo conflitto mondiale, con il desiderio di riscoprire le comuni radici di quel vivere democratico cui si tornò dopo il
'ventennio mussoliniano', prima del cosiddetto
'boom' economico, che trasformò il nostro Paese da
agricolo a
neo-industriale, con le conseguenze che tutti conosciamo bene. La tenerezza espressa da un acerbo
Goffredo Parise, con giacca, panciotto e papillon nella foto che campeggia sulla copertina del nuovo libro di
Silvio Perrella, è la sintesi mirabile del procedimento con cui l'autore vive la letteratura, riproponendo trent'anni di letture e interpretazioni, pezzi d'occasione e note critiche a compendio di opere. Lo sguardo
'lungo', dolce, come intimorito ma curioso, onnivoro, dell'autore del
'Il prete bello' è lo stesso di
Perrella, che varca la soglia in punta di piedi, facendosi largo con riserbo nelle vicende umane degli autori che disegnano, gli uni accanto agli altri, una cartina, che è poi una visione che il critico
'siculo/napoletano' (come lui stesso si definisce per marcare una rotta esistenziale) plasma con la prassi di un incisore, di un artista d'acquaforte, se non anche di esperto fotografo aduso a fermare nell'istantanea dello scatto la verità ultima di luoghi e persone a lui molto cari (vedi il suo bel libro fotografico, ma non solo,
'Doppio Scatto', 2015, Bompiani Editore). Non c'è
'piega' dove non si circoscriva una maniera che è musica costante, ma gli scatti sono in certe
'intercapedini', in certe
'epifanie': a un punto preciso, nel parlare dei
'Sillabari', Perrella cita
Robert Walser e, in via retoricamente interrogativa, si chiede se non sia lo scrittore svizzero lo
'snodo' di
un'idea di letteratura che è anche la sua, dal momento che
"la passeggiata potrebbe diventare una fertile metafora linguistica, il modo in cui si vive la scrittura sulla superficie della pagina". Proviamo a nominarli, allora, gli scrittori che
Perrella incontra nel suo personale viaggio a rebours:
Parise, programmaticamente, una passione confluita in
'Fino a Salgareda'; molto, moltissimo
Calvino, il
'nume tutelare', il riferimento di un confronto persistente, inappagato, sempre stimolante, mai dottrinale o accademico, che prende forma in un incontro mancato (e produttivo, inesauribile proprio perché mancato) e in un saggio,
'Calvino', a chiusura del
'secolo breve'; metodo e approccio simili con
La Capria, Garboli, la
Ortese, i due
Rea, Domenico ed Ermanno,
Ottieri, Striano, la
Ginzburg. Andando in elenco per sottrazione, sono figure che si stagliano nel perimetro di un libro che ha dei
'paletti cronologici', risultando un felice assemblaggio di interventi scanditi per decenni, apparsi su quotidiani, riviste e libri altrui - su
'Il Mattino' più che su altre, altrettanto prestigiose, testate. E questo è indubbiamente il maggior merito del libro di
Silvio Perrella, che ha voluto così rendere omaggio all'età dei padri (e delle madri), agli scrittori nati tra le due guerre che fondano la loro poetica, pur differenti tra loro e non sempre contigui, su un
denominatore comune: quello della s
ovrapposizione tra gesto stilistico e gesto vitale. "Scrivere e vivere non erano per loro due fenomeni disgiunti. In seguito, per tutti noi non è stato più così". Ogni congedo che si rispetti e che sia veramente, dolorosamente tale, è non soltanto il tentativo di ricomporre una frattura nel divaricarsi delle stagioni, ma pure la certificazione di un monito, di una
'lezione' - insieme intima e generazionale - che è come un
'sasso nello stagno'. E c'è da capire fin dove i
'cerchi' creati si siano spinti sulla superficie dell'acqua a condizionarne il moto. La predisposizione anche personale per il cenno (da titolo) e la
'brevitas', che dovrebbe dar peso alla poesia più che alla prosa, anzi alla poesia depositata nella prosa, non tragga in inganno il lettore:
Perrella, su un percorso all'apparenza
'piano', ci porta in un bosco letterario folto e vario, sopra un terreno
'scosceso', sapendo però che lanciarsi oltre fa parte di un disegno cosciente, voluto, cercato. Per un
Calvino che vuole interpretare il mondo con tutti gli strumenti di cui dispone, c'è un
Pasolini che decifra gli urti della mutazione antropologica fino a farsi
'carne straziata', non solo urlo, non solo parola; per un
Ottieri che, ci spiega l'autore,
"legge la malattia", c'è una
Ortese che legge il corpo celeste:
"Un solo alfabeto non basta più e non basta la letteratura come mera finzione". Perché, appunto, la generazione
'di mezzo' ha dovuto subire i
'disastri' della guerra e poi intercettare le speranze, spesso tramutatesi in illusioni, della ricostruzione, riformulandole con
linguaggi plurimi. In rapporto tenace (e conflittuale) con la Storia
"come dolore e come incubo", o anche come
"autocostruzione individuale", o semplicemente in relazione profonda con la natura, come nel caso più eclatante di
La Capria. La Storia del '900 è stata anche il tempo - e il
'tempio' - della malafede, secondo l'amara riflessione di
Nicola Chiaromonte, un intellettuale che si insinua tra i capitoli del denso volume di
Perrella come un piccolo
'faro nella tempesta': una traccia, una scia luminosa. Perché al mondo si sta ragionevolmente - afferma il
'camusiano' Chiaromonte (e Perrella condivide) - conservando
"l'apertura del cuore e la misura della ragione". Lungo questo crinale, sottile e impervio, possono muoversi sia la letteratura della
Ortese, "che ama fare a pugni con il mondo circostante", alternandosi così tra il sonno e la veglia come polarità irrinunciabili, sia il modo di intendere la vita e la narrazione di
Garboli, "uno scrittore che usa le idee come un romanziere usa i personaggi". Nei
ritratti, nella percezione dei
temi 'portanti' come delle sfumature impercettibili, nelle definizioni - spesso felicissime nel loro essere esaustive, come quella per
La Capria (
"Dove comincia la sua opera? Adesso lo sappiamo: comincia dove finisce e, da lì, ricomincia daccapo"...),
Perrella afferra i fischi nel buio e, in quel buio, porta innanzitutto se stesso, non avendo timore a esporsi con il suo bagaglio di esperienze, ma restando
'di sbieco', vigile, discreto. Fischi, cenni e, quindi,
addii. E il grande
poeta dell'addio non poteva che essere
Goffredo Parise, amato come si può amare una presenza più acuta nell'assenza, per dirla con
Attilio Bertolucci, perché l'addio parisiano - come ci ha insegnato
Geno Pampaloni - è insieme
"memoria e solitudine, un intreccio inestricabile di tenerezza e crudeltà, di malinconica dolcezza e di irritazione". Ovvero, il
'sale' di quegli autori che
Perrella si è scelto e ci ha scelto, in una forma sinfonica sostenuta da
'preludi' con toni talvolta diversi, e pur resi uniformi dallo sguardo lucido e appassionato dell'autore sul mondo.