Alcune tendenze al
'macchiettismo' e alla
superficialità hanno sempre fatto
capolino nella nostra industria cinematografica. Sino a prendere decisamente il
sopravvento, proponendo al pubblico lavori sempre più di
evasione e sempre meno di
analisi o
riflessione. Un
'riflusso' che dura, ormai, da più di
30 anni e che viene giustificato con alcuni risultati puramente
momentanei, come per esempio il successo del primissimo lavoro di
Aldo, Giovanni e Giacomo, 'Tre uomini e una gamba', o quelli più recenti del caricaturista
Checco Zalone. Ma si tratta di
entusiasmi sopra le righe, assai stravaganti se si prendono in considerazione le condizioni reali del
cinema italiano. Un settore che sta gettando sul
lastrico moltissimi lavoratori dello spettacolo, nella più totale assenza di ogni
politica culturale. I film di
Checco Zalone ottengono successo presso il pubblico poiché favoriti da una
distribuzione generosa e
massiccia, enormemente avvantaggiata rispetto ad altri lungometraggi ben più significativi sotto il profilo artistico e culturale. Siamo ancora
'impaludati' tra i limiti di quella concezione sintetizzata dalla frase:
"Con la cultura non si mangia". Un vero e proprio
'diktat', che sta appiattendo sempre più verso il basso la mentalità, già di per sé
piccolo borghese, degli italiani. Ma si tratta di un'imposizione
'subliminale', solo apparentemente assoluta, derivante da un
mercato caduto già da tempo tra le mani del
più forte. Una condizione di
'monopolio' che riesce a mantenere una posizione privilegiata proprio a causa dei difetti di un
'sistema-Paese' che ha sempre sottovalutato ogni cultura di
libera iniziativa e di
sana concorrenza perfetta, lasciandosi fagocitare dalle bieche logiche del
'marketing' commerciale, esclusivamente basate sulla catena
'produzione/distribuzione/esercizio/massmedia'. Un sistema che premia chi ha più
potere, o chi si ritrova in una
posizione dominante all'interno di un
mercato che
libero non lo è più. La potenza distributiva di
'Medusa', per esempio, tende sostanzialmente a privilegiare prodotti di
basso consumo e di
scadente qualità artistica per meri scopi di
profitto, quasi mai riequilibrati da esigenze di
conoscenza artistica o di
sollecitazione dello spirito critico dei cittadini, considerati come semplici
'utenti/consumatori'. E i buoni incassi di alcuni
'filmetti' di
'bassa cucina', oltre a santificare attori e personaggi che non vanno al di là di alcune indubbie capacità da
'cabaret', non bastano a risollevare una situazione finanziaria a dir poco
disastrosa, bensì finiscono unicamente con l'arricchire l'unico produttore e distributore rimasto sul mercato. Tutto ciò rende il cinema italiano un'industria le cui sorti risultano ormai legate,
'mani e piedi', al successo commerciale di qualche
'commediola' di provincia. Un cinema costretto a ripudiare non solamente le proprie
discendenze più nobili, ma persino quelle
più leggere e di costume.