Il deficit di coesione politica
dell'Unione europea non è affatto imputabile al fallimento delle politiche
d'integrazione inter-etnica e
multiculturale, bensì trova le sue origini in fattori di natura
politico-istituzionale. È la mancanza di
un'identità continentale 'forte' quel che sta portando le seconde e terze generazioni di immigrati ad aderire al
fondamentalismo islamico, più per una
'moda terrificante' che per la ricerca di un'identità culturale precisa. Il problema si sarebbe posto comunque, poiché ancor prima di giungere al
Trattato di Maastricht, la
Francia, per esempio, aveva già dovuto assorbire un
possente flusso migratorio proveniente dai Paesi del suo vecchio
impero coloniale. Gettare la
'colpa' di tutto su una
Ue che avrebbe attuato una cattiva politica multiculturale è, dunque, un
'falso storico': le giovani generazioni che si sentono integrate in un Paese qualsiasi dei
27 Stati-membri della
Ue difendono il loro
'status' di cittadini europei e vorrebbero addirittura
respingere le nuove ondate migratorie, come accadde qui da noi negli anni
'50 e
'60 del secolo scorso con gli immigrati provenienti
dall'Italia meridionale. In realtà, il
'nocciolo' del problema è quello di una società
'frammentata' da entrambe le parti, sia nella
vecchia Europa, nuovamente minacciata dalle destre razziste e ultranazionaliste, che cercano di cogliere l'attuale fase di disorientamento al fine di porre la vecchia questione dell'identità originaria e delle barriere da erigere contro gli
'altri mondi', sia nel
'campo' musulmano che vive in
Europa, il quale non desidera altro che integrarsi senza dover
contenere l'arcipelago estremista che vive in seno alla sua cultura. Il problema di
un'Europa maggiormente
rappresentativa sotto il profilo
istituzionale, nonché meno
ingiusta dal punto di vista della redistribuzione delle ricchezze, propone una questione completamente diversa: quello della costruzione di
un nuovo tipo di società, capace di
sgombrare dal 'tavolo' le vecchie resistenze nazionaliste, già storicamente sconfitte alla fine della seconda guerra mondiale. Tale
'sbilanciamento' era prevedibile sin dall'inizio del processo di unificazione, avvenuto unicamente sotto un profilo
economico-monetario. Ciò che aveva reso
'espansiva' la prima fase di costruzione della
Comunità economica europea fu un tipo di
'rilancio' e di
sviluppo 'strutturale' basato sul consumo e sulla
massificazione 'fordista' dell'offerta dei beni voluttuari e di lusso. Il
'vecchio continente' proveniva dalle macerie dello scontro bellico e, in quella fase, il
'volano' di un necessario ammodernamento morale, infrastrutturale e dei costumi risultava un
passaggio obbligato. Infatti, secondo una
vecchia legge economica, è più facile impostare una fase di
crescita anche tumultuosa in quelle società che
escono dall'arretratezza, piuttosto che in quelle che
riposano sugli 'allori' del proprio passato di
opulenza. Ma nel momento in cui
l'Unione europea si è ritrovata in buona parte modernizzata doveva subito occuparsi di
'convertire' la propria economia per generare
nuovi mercati di beni e servizi, non limitarsi a
'normare' o a
sovvenzionare settori ormai in fase di declino. Ecco perché insistiamo su quella che potrebbe essere
un'opportunità per l'Europa: un processo
sinceramente multiculturale, che sostituisca il vecchio
'proletariato' continentale con le nuove forze ed energie provenienti dall'imponente flusso migratorio, con il vantaggio di poter reimpostare
nuovi rapporti di sinergia tra le diverse classi sociali. Ma, per far questo,
l'Europa deve definitivamente abbandonare quel vecchio
immobilismo conservatore 'pseudo-pragmatico', che favorisce solamente
'miasmi' di protesta a dir poco
archeologici e ambigui, quando non del tutto
avventuristici o astratti.
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Direttore responsabile di www.laici.it e della rivista 'Periodico italiano magazine' (www.periodicoitalianomagazine.it)
(editoriale tratto dalla rivista 'Periodico italiano magazine' n. 20 - luglio/agosto 2016)