Negli anni della tanto vituperata
prima Repubblica, i famosi
'pacchetti' di assunzione in
Rai erano gestiti secondo la regola delle
'quote'. In pratica, a
viale Mazzini si decideva di assumere un raccomandato dai
democristiani, uno dai
comunisti, uno dai
socialisti e, infine, uno
'bravo', ovvero che lo meritava, poiché aveva vinto il concorso pubblico affidandosi unicamente alle proprie capacità. L'applicazione di tale metodologia, sin da allora relegava le
assunzioni per merito in una condizione di
marginalità. Ma con l'avvento della
seconda Repubblica è stato fatto molto peggio: si è direttamente passati all'introduzione di formule contrattuali a tempo
determinato, le quali hanno
'devastato' ogni singola redazione del nostro
ente di Stato televisivo, precarizzando i rapporti professionali in base a un criterio di
flessibilità inapplicabile sul
mercato italiano delle telecomunicazioni. Di conseguenza, oggi non solo il
professionista 'bravo', ma persino
il 'raccomandato capace' non possono conquistare spazio alcuno, né ottenere percorsi alternativi di collaborazione. Ecco perché sarebbe necessario fare qualcosa di diverso, soprattutto in campo televisivo, magari utlizzando gli ampi spazi e le nuove possibilità introdotte dalla
rete internet e dallo sviluppo tecnologico. Una piccola minoranza di redazioni
(Rainews24, Tgcom, Skytg24, Report e Presa diretta) riescono a proporre, con pochissimi mezzi, un'informazione basata su servizi professionalmente e qualitativamente di
buon livello. Ma tali lodevoli eccezioni sono solamente piccole '
isole', all'interno di un mondo televisivo appiattito sui
'reality' e sempre più
a corto di idee. Il vero problema italiano è infatti quello di un
mercato della comunicazione radio-televisiva
'colonizzato' da pochi soggetti, secondo un deformato modello di
oligopolio sempre meno differenziato. Una condizione che la
legge Gasparri (Legge n. 112 del 3 maggio 2004) si limitò a
fotografare se non, addirittura, a
rafforzare. Un mercato sostanzialmente
'protetto' e riservato a pochi, privo di reale
concorrenza, soprattutto nel campo del reperimento delle
risorse pubblicitarie. Condurre un programma televisivo o radiofonico, anche di successo, rimane una professione per
'privilegiati' sostenuti da rapporti di potere politico, economico o da altre situazioni
'feudali' di vero e proprio
'padrinaggio'. Tuttavia, a prescindere da queste
'tare di fondo' del nostro sistema televisivo, se è ormai assodato che un modello completamente
sovvenzionato dallo Stato finisca col generare sprechi, rendite di posizione e un abbassamento qualitativo delle varie professionalità, a cominciare da quelle
artistiche e autoriali, al contempo è sempre mancata, nel nostro
'anarcoide' Paese, una sincera
visione dei mercati basata su forme di
concorrenza 'leale', ovvero regolate da
poche norme ma molto precise,
chiare per tutti. Dopo il crollo dell'utopia comunista del
1989, l'Italia è rimasta in mezzo al
'guado' tra un vetusto
corporativismo di Stato e un'innovativa
visione liberale delle professioni, in grado di
espellere dai mercati stessi strozzini, ricattatori e tutte le svariate e molteplici
'tecniche' di
'pirateria' economico-finanziaria che, qui da noi, imperano in ogni campo e settore. Insomma, riassumendo molto la questione, da una parte
lo Stato proprio non funziona e, forse, non ha mai funzionato; dall'altra, la visione
'all'italiana' della
libertà di mercato corrisponde a un
Far West, in cui illeciti e scorrettezze hanno sempre avuto
piena cittadinanza. Questa è la vera questione socioeconomica di fondo, che sta '
zavorrando' l'Italia in quasi tutti i campi e settori, compreso quello televisivo. Il quale, in questi ultimi decenni, non ha fatto altro che riflettere
la decadenza del nostro 'sistema-Paese'. A meno che esso non intenda tradire la propria funzione sociale, anche il modello italiano delle telecomunicazioni deve ritrovare il coraggio di
mostrare un mondo che vuole cambiare. E aiutare a
cambiarlo.
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Editoriale tratto dalla rivista mensile 'Periodico italiano magazine' (n. 18 - aprile 2016)