Giorgio Morino"Dio è morto! Dio resta morto! E noi l'abbiamo ucciso"! Con questo aforisma, Friedrich Nietzsche cercò di spiegare come l'idea di Dio non fosse più vincolante per gli uomini. E che questo essercene liberati avrebbe eliminato qualunque tipo di fiducia in un qualsiasi ordine. Questa interpretazione della frase più famosa del filosofo tedesco, contenuta nell'opera 'La gaia scienza', si potrebbe applicare anche al mondo dei giornali di oggi, in cui la velocità dell'informazione è talmente elevata da premiare siti e blog che proprio sull'immediatezza basano la loro forza, a scapito del giornalismo 'tradizionale', vecchio 'dinosauro' apparentemente in via d'estinzione. Per chi vuole fare questo mestiere e approfondire quelle problematiche che affliggono la nostra società potrebbe sembrare un 'darsi la zappa sui piedi'. In realtà, si tratta di una presa di coscienza necessaria a superare quello 'stallo' che l'informazione, la vera informazione, ha vissuto in questi ultimi decenni. Anni dominati da internet, in cui la curiosità e la ricerca sono stati fagocitati da una 'bestia' affamata chiamata Google, in cui non conta tanto l'attendibilità della voce che afferma qualcosa, quanto piuttosto la velocità di pubblicazione e la sfrontatezza del contenuto. Di tutto questo ne è ben consapevole lo scrittore americano Jonathan Franzen, che con l'uscita negli Stati Uniti del suo ultimo romanzo, intitolato 'Purity', edito da Farrar Straus and Giroux, ha deciso di esaminare il mondo del giornalismo nell'era di Facebook, Twitter e WikiLeaks, regalandoci un ritratto graffiante e disilluso di un mondo che sta morendo. E che, soprattutto, non fa nulla per evolversi e sopravvivere. La giovane Purity, protagonista del romanzo, è alla ricerca della propria affermazione in un mondo popolato da personaggi che ricalcano lo stereotipo del moderno modo di fare il giornalista: il 'blogger' alla ricerca dello 'scoop' a tutti i costi, o il fanatico emulo di Julian Assange, pronto a pubblicare tutti i segreti dei potenti e così via. Un mondo, quello del giornalismo, investito in pieno dall'autotreno della rivoluzione digitale senza, tuttavia, adeguarvisi, poiché incapace di dimostrarsi 'altro' dal semplice riportare una notizia. Il mondo è diventato molto più grande e la rete da a tutti la possibilità di parlare e dire la propria su eventi o fatti rilevanti. Ma ciò non significa "fare giornalismo": stando proprio a quanto affermato da Franzen durante la presentazione del proprio libro a New York e riportato da 'La stampa', questa nuova realtà tecnologica, in cui chiunque abbia uno smartphone e 'giri' una notizia sui social network possa considerarsi un qualcuno che fa informazione, è inaccettabile: "Così si alimenta solo il rumore, e vince chi grida più forte. Ho seri problemi con chi dice che i giornalisti non servano più perché tanto abbiamo i leakers, i citizens journalist, il crowd sourcing e i blogger. È un cammino che porta a una cittadinanza disinformata, oppressa e uniformata, perché non c'è nessuno che cerca responsabilmente di riportare cosa succede realmente, ma soltanto opinioni personali, spesso opposte e violente, o mal 'digerite'. Chi urla più forte ha ragione. Ma io penso sia sbagliato diffondere l'informazione in questo modo". Fortuna vuole che a sottolineare una cosa del genere sia uno scrittore e non un giornalista, il quale verrebbe subito accusato di 'tirare l'acqua al proprio mulino'. Franzen, nel proprio intervento, analizza lucidamente ogni sfaccettatura della questione, individuando nella mancanza di investimenti editoriali il vero nocciolo della problematica: la moderna forma di informazione è sostanzialmente gratuita, ad accesso illimitato, senza barriere, rendendo in tal modo inutile e sostanzialmente antieconomico sostenere i costi di un grande quotidiano. Ciò si riflette, indirettamente, anche sulla professione del giornalista, ridotto a semplice 'freelance' non pagato e in eterna lotta con il gigante internet. "Uno dei problemi che ho con internet", spiega ancora Franzen, "è che sta rendendo sempre più difficile per i giornalisti essere pagati, in particolare i freelance. È un cane che si morde la coda: qualcuno fa un enorme lavoro per trovare dei fatti, ma nell'istante in cui li pubblica vengono subito presi, linkati, twittati, copiati, senza che chi li ha scoperti e diffusi per primo venga adeguatamente compensato da chi li consuma". Appare quantomai evidente che, di fronte alle sfide della modernità, la vera informazione stia rischiando di scomparire. Eppure, si tratta di un mestiere fondamentale per qualunque società davvero democratica. Fare giornalismo è una funzione preziosa, che non dovrebbe in alcun modo essere abbandonata a se stessa e che presuppone il sostegno, nel suo naturale esercizio, di investimenti seri e mirati, puntando sull'autorevolezza e l'affidabilità dei contenuti. Soluzioni al momento non sembrano esserci, ma l'appello lanciato dallo scrittore alla stampa a 'stelle e strisce' potrebbe essere il punto d'origine per una riflessione più ampia, che investa l'intero sistema dell'editoria. Un appello che anche molti quotidiani italiani dovrebbero porre in risalto, specialmente per ciò che riguarda gli aspetti deontologici e di retribuzione di questa particolare professione.


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