Voglio parlare di
Giancarlo Siani. Non vorrei farlo, però, nel tono che in questi giorni, a trent'anni dal suo omicidio, viene usato dai media italiani: la stessa retorica celebrativa e fine a se stessa che accomuna, in queste circostanze, tutti gli uomini e le donne che hanno dato la loro vita nella lotta alla mafia e che sfuggono all'attenzione del pubblico e delle istituzioni al di fuori dei vari anniversari. Ho passato in compagnia di
Giancarlo Siani l'ultimo anno della mia vita universitaria. E le sue parole mi hanno accompagnato verso il traguardo più importante dei miei studi. L'interesse per il lavoro di questo ventenne napoletano che, senza paure, né compromessi, osò sfidare
la camorra di Torre Annunziata e il clan dei Nuvoletta e Valentino Gionta negli anni '80, ha catturato completamente la mia attenzione. E la rabbia per la sua scomparsa ancora mi prende la bocca dello stomaco. Per fare il miglior lavoro possibile è stato necessario recuperare gli articoli e leggerli cronologicamente, fino al tragico epilogo del 23 settembre 1985. Un'occasione che è stata - e sono convinto possa esserlo per chiunque - di crescita e maturazione personale, difficilmente spiegabile in poche righe. La conoscenza degli ambienti camorristi e le deficienze nella repressione delle attività illegali hanno, di fatto, cambiato il modo di affrontare, giornalisticamente, la criminalità organizzata, stabilendo nuovi standard che ancora oggi sono seguiti da coloro che vogliono addentrarsi in questo sporco universo. E il primo nome che mi viene in mente è quello di
Roberto Saviano, che infatti ha dimostrato in più di un'occasione la sua ammirazione per il lavoro del corrispondente de
'Il Mattino'. Fin da giovanissimo,
Giancarlo Siani aveva ben chiaro cosa significasse fare giornalismo, interessandosi, sulle pagine della rivista
'Il lavoro nel Sud', di problemi legati al lavoro nelle fabbriche e questioni sindacali, dimostrando immediatamente una lucidità nelle analisi delle dinamiche interne a queste realtà fuori dal comune. Arrivato nella redazione de
'Il Mattino' di
Torre Annunziata, quelle capacità vennero immediatamente messe all'opera per districare la fitta rete criminale del clan di
Valentino Gionta. L'incremento dello spaccio di stupefacenti a scapito del contrabbando di sigarette nel porto di
Torre Annunziata, la corruzione dilagante negli uffici del
sindaco Bertone nel gestire e pilotare gli appalti pubblici e il 'tradimento' dei
Nuvoletta nei confronti di
Gionta, sono tutti tasselli di un 'puzzle' intricato e sconcertante. Fu proprio l'abilità di
Siani la causa della sua morte, freddato nella sua
Mehari verde mentre era parcheggiato sotto la sua abitazione, al
Vomero, all'età di 26 anni. C'è una cosa che colpisce, in occasione di queste ricorrenze: l'opinione pubblica e le autorità si uniscono in un 'coro' celebrativo altisonante, che eleva le vittime della mafia a martiri eroici di una guerra senza quartiere. Come se servissero gli anniversari, per far capire all'opinione pubblica cosa significhino veramente i nomi sulle targhe commemorative che si trovano nelle nostre strade. Questi nomi esistono per un giorno all'anno, vengono celebrati come eroi e poi dimenticati per i restanti 364 giorni, perché, come disse un giudice coraggioso,
"è la morte violenta a rendere una persone credibile, in questo Paese". Per rendere davvero onore a queste persone sarebbe sufficiente ricordare sempre il loro lavoro, non la loro dipartita. Furono i suoi articoli, le indagini che condusse testardamente da solo, non curandosi dei pericoli che correva, a rendere
Siani pericoloso. Così come avvenne per
Falcone, Borsellino, Mario Francese, Peppino Impastato e tutti gli altri nomi di questo interminabile elenco. L'anno trascorso in compagnia di
Giancarlo Siani ha cambiato la mia vita e la mia opinione su questo mestiere, sull'essere giornalista e sui rischi che questo lavoro comporta quando lo si fa veramente come lo si dovrebbe fare.