La ripresa economica obiettivamente c'è. Purtroppo, si tratta solamente, almeno per il momento, di una
'ripresina'. E dopo il recente 'tonfo' della borsa cinese esistono, sul piano globale, ulteriori pericoli per una nuova 'flessione' complessiva. Ciò avviene poiché si continua a non distinguere i parametri 'nominali', cioè quelli finanziari, del debito pubblico o relativi all'andamento produttivo - che fanno esplicito riferimento a una visione macroeconomica generale - da quelli dell'economia 'reale', la quale invece necessita di 'spinte' specifiche e interventi microeconomici continuativi e non di puro contenimento. Innanzitutto, è necessario ricordare, ancora una volta, come il sistema produttivo europeo sia sostanzialmente diverso da quello americano e asiatico: la
'zona-euro' è un modello 'misto', caratterizzato dalla partecipazione all'impresa sia di aziende pubbliche, sia private. Addirittura, ci sono Paesi, come per esempio proprio l'Italia, i quali si avvicinano maggiormente a una
configurazione 'semi-socialista' a
'partecipazione variabile'. Le privatizzazioni avviate in passato, in particolar modo qui da noi, non sono state sufficienti a vivacizzare i mercati interni. E comunque, esse possono dare risultati 'espansivi' soltanto nel medio-lungo periodo. Pertanto, quel che si continua a non comprendere è la cosa più semplice di tutte: il fatto che il nostro sistema produttivo sia di tipo consumistico. E' il versante della domanda, quello che dev'essere stimolato maggiormente. In che modo, di grazia? Ebbene, dato che non siamo nelle condizioni di aumentare stipendi e pensioni, o di incidere sensibilmente sull'occupazione, la quale potrebbe segnalare miglioramenti solo in caso di una crescita complessiva del
Pil che si attesti attorno al
2% annuo, diviene necessario incentivare gli investimenti, individuando settori innovativi e tecnologicamente avanzati, al fine di non far dipendere la nostra ripresa unicamente da fattori tanto congiunturali, quanto 'inerziali', come il prezzo del petrolio e il deprezzamento dell'euro. Ciò significa assumersi la responsabilità di investire maggiormente nell'innovazione e nella ricerca, allargando al contempo il diritto di cittadinanza economica a imprese piccole e medie composte da una nuova 'classe' imprenditoriale giovanile e femminile. Servono nuovi 'marchi' e nuove aziende, poiché anche in campo capitalistico può esser presa in considerazione l'esigenza di un cambiamento generazionale. Rimanendo all'interno di un ambito di interventi squisitamente
'keynesiani', la nostra analisi si attesta, con piena franchezza, sul fronte di un utilizzo strumentale della leva fiscale, in grado di produrre un robusto aumento della domanda di beni di consumo. Ma per poter far questo, tutte quelle imprese appesantite dai debiti o sostenute da sovvenzioni e aiuti 'statali' debbono esser poste al di fuori dei rispettivi mercati, riducendo al contempo quel 'monte complessivo' di elusione ed evasione fiscale che, da sempre, giustifica ogni tipo di contestazione - anche la più 'pelosa' - nei confronti dello Stato. Per questioni di principio, ovviamente non demonizziamo il mercato e la libera iniziativa economica. Ma essa dev'essere realmente tale. E deve tendere a favorire quel necessario 'riequilibrio' fiscale che, al momento, finisce col tutelare soprattutto chi 'zavorra' il Paese rispetto a chi, invece, cerca di operare onestamente, lavorando notte e giorno per aumentare la produttività della propria azienda. Deve finire questa 'storia', tutta italiana, che chi si comporta in maniera corretta sia, sostanzialmente,
un emerito 'coglione'. Risulta ormai necessario e urgente operare un 'ribaltamento' preciso nella nostra mentalità comune: solo all'interno di un 'quadro' complessivo di maggior giustizia tributaria si possono tentare precise 'mosse' di riduzione fiscale e di sburocratizzazione procedurale del 'sistema-Paese'. Se veramente si sta studiando un modo per
"tagliare le tasse", come recentemente dichiarato, un po' in 'soldoni', dall'attuale presidente del Consiglio, allora la nostra indicazione non può che esser quella di chiedere aiuto e sostegno per le imprese piccole e medie, per le professioni autonome e indipendenti, per tutti quei 'ceti' lavorativi e produttivi che portano sulle proprie 'spalle' il peso maggiore della collettività. Insomma, più che di un
"taglio rivoluzionario delle tasse" sarebbe stato più corretto parlare di
"redistribuzione del carico fiscale", al fine di andare a 'smuovere' la domanda di beni e servizi. Si favorisca, dunque, l'accesso ai mercati di nuove aziende giovanili o d'imprenditoria femminile. E si mandino finalmente in pensione quei 'pirati' produttori soprattutto di debiti, 'buchi', stock option e quant'altro, investendo in campi innovativi, capaci di assorbire veramente il tasso di disoccupazione giovanile, specialmente nel Mezzogiorno. Solamente in tal guisa, una logica di defiscalizzazione può avere un senso: bisogna fare lo sforzo di prevedere dove sta andando il mondo, individuando quei bisogni e nuovi 'sbocchi' verso i quali il nostro sistema produttivo potrebbe indirizzarsi, abbattendo al contempo il 'monte' complessivo dell'evasione fiscale. Un'operazione, quest'ultima, che in tutto il mondo si combatte, anche nei Paesi a capitalismo avanzato, con la prigione e il fallimento e non depenalizzando il 'falso in bilancio'.