Giorgio MorinoNel numero di agosto, il nostro mensile sfogliabile ‘Periodico italiano magazine’ aveva compiuto una sorta di pellegrinaggio nella terra della Ferrari, assaporandone la passione e ammirando la straordinaria dinastia di vittorie e riconoscimenti. La speranza che i recenti risultati deludenti (per non dire disastrosi) in Formula 1 della scuderia italiana più famosa del mondo potessero essere lasciati alle spalle si è rivelata un’illusione. La Ferrari non vince più. Ricercarne le motivazioni è un lavoro lungo e faticoso: sicuramente i nuovi regolamenti che la Fia ha adottato hanno messo la scuderia di Maranello in una posizione di non competitività rispetto alle concorrenti più accreditate. Questa situazione, insostenibile per un marchio leader nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie, ha portato a un avvicendamento del massimo vertice aziendale: dopo ventitré anni alla guida del ‘Cavallino rampante’, Luca Cordero di Montezemolo ha rassegnato le dimissioni dalla presidenza e sarà sostituito, dal prossimo 13 ottobre, dall’attuale amministratore delegato del gruppo Fca (Fiat-Chrysler Automobile), Sergio Marchionne. Una mossa che ha suscitato molte perplessità, non solo tra gli appassionati della Ferrari, che vedono nel manager italo-canadese una figura prevalentemente interessata a questioni economico-finaziarie e ai grandi numeri di produzione e vendita a livello mondiale. Montezemolo, che prese le redini in un momento di profonda crisi dell’azienda (nel dicembre del 1992 erano addirittura 950 gli addetti alla produzione che subirono un regime di cassa integrazione) durante la sua presidenza ha adottato una strategia commerciale che puntasse sull’esclusività e sui ridotti numeri di produzione, garantendo comunque risultati sportivi di massimo livello e, al tempo stesso, profitti da capogiro. Rivoluzione formato uomo: la filosofia che ha caratterizzato la presidenza Montezemolo. Maranello non solo è uscita dalla crisi dei primi anni novanta, ma è diventata l’esempio più eclatante di quello che dovrebbe essere il modello di business in Italia: la produzione delle ‘rosse’ non supera mai i 7 mila esemplari l’anno, per preservare l’esclusività delle vetture e mantenere altissimo il valore sul mercato dell’usato; l’intera fabbrica ha subito un poderoso intervento di riqualificazione eseguito dai nomi più prestigiosi dell’architettura e del design Made in Italy, come Renzo Piano (che ha realizzato il progetto della ‘Galleria del vento’, dove viene testata l’aerodinamica dei nuovi telai), Massimiliano Fuksas (suo il progetto del ‘Centro sviluppo’, straordinario esempio di architettura bioclimatica) e Marco Visconti (autore del padiglione ‘Lavorazioni meccaniche e motori’, dove a farla da padrone non è solo la meccanica, ma anche la vegetazione, grazie alle molte aree verdi integrate nella struttura e che aiutano a salvaguardare il microclima ideale). Esclusività, avanguardia tecnologica e bellezza. La Ferrari è questo, il marchio italiano più famoso e identificabile nel mondo, l’oggetto del desiderio di tutti gli appassionati di automobilismo. I pessimi risultati nel mondiale di Formula 1 sono stati solo un pretesto per favorire un avvicendamento che nessun appassionato sperava di vedere mai: nonostante la formale appartenenza all’universo Fiat dal 1969, la scuderia di Maranello ha sempre mantenuto la propria indipendenza da Torino, che adesso rischia di essere compromessa. Ben più interessato ai profitti rispetto che alle tradizioni, Marchionne ha sempre ostentato una grande spregiudicatezza nella gestione del patrimonio automobilistico di casa Fiat. Viviamo in un mondo globalizzato, in cui non c’è posto per retrograde politiche di conservazione e valorizzazione: tutto deve essere integrato in un progetto più ampio e sostenibile, poiché il profitto al minor costo è l’unica bibbia che valga la pena seguire. Forse si rischia di scadere nella nostalgia troppo facile, ma vedere delle Chrysler vendute in Italia con il marchio Lancia, che tanto ha dato alla storia del nostro automobilismo, ha il sapore della beffa e dello spregio della tradizione. Quando è stata annunciata la nuova presidenza Marchionne non sono stati pochi i fan della rossa che devono aver avuto un brivido freddo lungo la schiena: una Ferrari americana, assemblata in qualche paese balcanico per risparmiare sulla manodopera, prodotta in serie per accontentare una domanda sempre crescente: tutti argomenti che andrebbero bene per qualunque altra casa automobilistica, ma non per la Ferrari. Dopo aver investito oltre 200 milioni di euro per rimodernare le strutture di Maranello e trasformare la Ferrari nell’azienda simbolo della bontà dell’industria manifatturiera italiana (perché è sempre bene ricordarlo: ogni Ferrari che esce da Maranello è un prodotto artigianale, nella stessa serie nessuna macchina è identica alle altre) sarebbe veramente incomprensibile smantellare un meccanismo così oliato e capace di fatturare, solamente nel mese di giugno di quest’anno, 1348,6 milioni di euro (+14,5%) con un utile della gestione ordinaria che ha toccato quota 185 milioni di euro (+5,2%). Numeri impressionanti, considerando il volume di produzione e l’artigianalità del prodotto. Per adesso si sono susseguite infinite rassicurazioni sulla volontà mantenere la Ferrari in Italia e aumentare l’impegno nel settore corse, anche in vista di un imminente e quanto mai necessario cambio del regolamento Fia. Si parla anche di una possibile - e più volte smentita - quotazione in borsa a Wall Street, che potrebbe produrre un effetto traino alle azioni del gruppo Fca sul mercato statunitense. Una cosa è certa: sorvolando sulle polemiche sorte sui 27 milioni di euro che ha ricevuto in liquidazione, non si può negare la bontà e la passione infusa nel lavoro fatto da Luca Cordero di Montezemolo, capace di battere ogni record nel palmares e nelle vendite. Il futuro? Si parla di una possibile poltrona alla presidenza di Alitalia, per mantenere almeno in parte l’italianità della nostra compagnia di bandiera e la speranza che le conoscenze internazionali e l’indiscutibile esperienza manageriale possano risollevare le sorti di quella che dovrebbe essere una punta di diamante della nostra economia. Come lo è la Ferrari.





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