Una Repubblica fondata sul lavoro. Quella italiana? Forse solo nella Costituzione. Anni e anni di stupidità assoluta, di incapacità totale, di patetici tentativi di imitare pedissequamente modelli estranei hanno portato ad una disoccupazione devastante che, a livello giovanile, diventa drammatica. Il problema, però, non riguarda solo chi il lavoro non ce l’ha, ma anche e soprattutto chi ha già un’occupazione. E non vede l’ora che la tortura finisca, che le catene vengano spezzate. Il lavoro, in assoluto, non è una liberazione bensì una maledizione. Sin dai tempi della cacciata dall’Eden. Poi l’uomo se n’è fatto una ragione. E quando non era schiavo, è riuscito a volte a farsi piacere l’attività che gli consentiva di sopravvivere. La creatività applicata al lavoro. Arte e pane, arte per il pane. Ma questo è l’aspetto piacevole e, dunque, raro. Perché per la maggior parte del genere umano, il pane si conquistava con il sudore, con una fatica che accomunava l’uomo alla bestia. La campagna di chi lavorava non era quella dell’Arcadia. Arare con il bove non era proprio una passeggiata di salute. E c’era anche chi il bove non l’aveva e l’aratro veniva trainato con forza umana, non animale. La vita nelle campagne italiane, anche in tempi abbastanza recenti, era quella descritta da Olmi nell’Albero degli zoccoli. Non quella degli svizzeri che acquistano il casale in Langa o degli inglesi che si trasferiscono sulle colline toscane. Ma è più facile fermarsi alle immagini bucoliche. Sognare che la campagna, prima dell’introduzione dei concimi chimici, fosse il regno della felicità, del benessere. La poesia delle mondine è molto diversa dalla realtà delle mondine. Ragazze e donne che trascorrevano la giornata con i piedi nell’acqua, tra nugoli di zanzare, con la schiena sempre china. E la liberazione dalla schiavitù non è certo arrivata con la rivoluzione industriale. Deportazione dalle campagne seguita da orari massacranti. Una meraviglia. L’epoca dei "padroni delle ferriere", senza diritti, senza tutele, senza speranze. Morire per infortuni sul lavoro o perché si respirava di tutto tranne che aria pulita. Poi, però, sono arrivate le tecnologie avanzate. La fatica si è ridotta, si è dato spazio alla creatività. Il nuovo Rinascimento. Beh, la realtà non era proprio quella. Ma, indubbiamente, il lavoro è diventato fisicamente molto meno duro ed è nato il ‘made in Italy’. Non solo prodotti tipici, ma anche un modello produttivo. Si ottenevano, anche su scala industriale, prodotti tipicamente artigianali. D’altronde l’Italia era caratterizzata da un’anomala ed immensa presenza di piccole aziende, di micro imprese. Che riuscivano a conciliare stile, innovazione e quantità. Non è che la fabbrica si fosse trasformata in un luogo di piacere o di distribuzione di denaro in quantità, ma perlomeno venivano riconosciute, ed apprezzate, le qualità di chi sapeva creare, inventare, innovare, così come quelle di chi sapeva produrre anche solo un bullone ma con la massima precisione. In fabbrica come in qualsiasi altro luogo di lavoro. Dalla bottega artigiana al negozio, dallo studio professionale alla redazione di un giornale, dal ristorante al set del cinema. Si lavorava con serenità perché esistevano prospettive, perché non si passava il tempo pensando a come sopravvivere o a come pagare il mutuo o dove trovare i soldi per la spesa quotidiana. E lavorare con serenità, senza l’obbligo di cercare un’altra occupazione a tempi brevi, consentiva di sfruttare appieno competenze e professionalità. Consentiva di creare anche legami umani tra il datore di lavoro e il lavoratore. Quando una delle tante alluvioni colpì il Piemonte, ad Alba gli ex dipendenti della Ferrero, in pensione, si precipitarono nello stabilimento per aiutare a ripulire. E sui necrologi le famiglie erano orgogliose di scrivere che il congiunto defunto era un ex dipendente della tal fabbrica o della tale azienda. Serenità, tranquillità singificavano creatività, qualità. Il modello italiano, così diverso da quello statunitense. Prodotti quasi unici contro prodotti standard. Ma i grandi geni dell’economia italiana decisero che il modello italiano era antiquato, superato. Come quello renano o quello giapponese. Che funzionavano, ma l’Italia doveva guardare agli Usa o alla Gran Bretagna. Basta con le tutele, basta con il riconoscimento del merito, della qualità. Certo, negli Stati Uniti gli stipendi erano più alti e consentivano, ai licenziati, di sopravvivere più a lungo in attesa di un nuovo lavoro che, da loro, era più facile da trovare. Ma per i geni italici questi erano particolari insignificanti. Bisognava tornare ai metodi dei padroni delle ferriere. Bisognava precarizzare il lavoro. "Uno vale uno": Grillo non c’era ancora ma l’idea americana si imponeva. Nessuno è insostituibile, qualsiasi mansione può essere affidata a chiunque. Tutti sono intercambiabili. Già il lavoratore italiano non era gratificato da salari decenti, ma essere anche dequalificato umanamente e professionalmente non era proprio il massimo. Non era l’ideale per un lavoro di qualità. Si passava dalla serenità alla minaccia, dalla garanzia alla precarietà. Senza la rete efficiente degli uffici di collocamento dei Paesi Scandinavi, senza le retribuzioni d’Oltreoceano. In realtà le retribuzioni crescevano. Ma solo per i manager. Da una media di stipendi dei dirigenti superiori di 17-20 volte rispetto a quelli dei dipendenti meno pagati, si passava a moltiplicatori a tre cifre: 100-200 volte, ed anche più. Con premi regalati ai manager, per l’andamento aziendale, anche quando i bilanci erano pessimi e le performances negative. Ovvio che la frustrazione dei lavoratori aumentasse. E più cresceva la frustrazione ed il risentimento, più si riduceva la produttività. In una sorta di spirale perversa, peggioravano quantità e qualità della produzione ed i manager, per migliorare i bilanci, riducevano gli investimenti. Si passava da direttori di stabilimento, che conoscevano persone e macchine, a maghi della finanza che conoscevano solo le cifre. E le sbagliavano pure. Ma se un’osservazione o un consiglio da parte di chi aveva maggiore competenza e professionalità venivano accettati (magari con qualche mugugno, ma con la consapevolezza di avere a che fare con dirigenti preparati), gli ordini impartiti da chi il lavoro non lo conosceva venivano, immancabilmente, ignorati. Si creava tensione e la tensione non creava qualità. D’altronde, a chi interessava ancora la qualità? Chi, in azienda, era in grado di accorgersi della differenza tra un lavoro fatto bene ed uno eseguito malissimo? Contano i numeri, tutto il resto è un optional. Ma se il manager non può imporsi perché i dipendenti non gli riconoscono competenza e professionalità, l’unica arma che può usare è quella delle regole ferree, sempre più rigide, sempre più inutili ed ottuse. Più regole si introducono e più cresce il disamore nei confronti dell’azienda, la disaffezione. Poi il disgusto. E il circolo vizioso prosegue. Se il dipendente perde di interesse, di motivazione, perché tenerlo? Fuori senza tanti complimenti. Ormai gli strumenti ci sono. E poi "uno vale uno". Fuori un vecchio quarantenne demotivato e dentro un ragazzino senza esperienza. Già, cosa faceva prima il ragazzino? Due mesi come lavapiatti, tre di disoccupazione, due settimane come fattorino, due mesi di disoccupazione, 5 giorni a consegnar volantini, un anno di disoccupazione, sei mesi in un call center. Perfetto, è la figura ideale per occuparsi di marketing o per lavorare su un computer a disegnare mobili. Magari manca un po’ di professionalità, ma tanto è pagato meno della donna delle pulizie. Imparerà lavorando. Forse. Perché magari non avrà il tempo per imparare. O forse perché nessuno gli insegnerà il lavoro, visto che chi lo conosceva è stato lasciato a casa. E se anche ci fosse ancora, in azienda, qualche anziano in grado di insegnare il mestiere, perché dovrebbe farlo? Per essere cacciato, senza un ringraziamento, subito dopo aver insegnato al giovane collega il minimo indispensabile? Così peggiora il clima all’interno delle aziende. Creando un solco sempre più largo tra le generazioni. Giovani rottamatori contro vecchi rottamandi. Il nuovo che avanza contro la conservazione. Il futuro contro il passato. Esperienza e competenza diventano bagagli pesanti ed inutili. Il nuovo è improvvisazione. Anche perché la preparazione garantita dalle scuole italiane è tale da non poter puntare su conoscenza e competenza o altro che non sia l’improvvisazione assoluta. Ma, forse, è giusto così. Al di là degli aspetti umani (in questa Italia al servizio del Fmi e della Bce contano i numeri, non le persone), è inutile far convivere sul lavoro due realtà che si cerca in ogni modo di far collidere anche nella società. Giovani contro anziani, scontro generazionale. Fa comodo ai mercati, perché consente di eliminare stipendi più alti e di inserire un numero inferiore di giovani con salari più bassi. Fa comodo alla concorrenza internazionale, perché elimina un competitore come l’Italia che, un tempo, faceva qualità e conquistava mercati. Fa comodo agli operatori turistici stranieri perché, con le pensioni ridotte italiane, si elimina il turismo della Terza età che manteneva in vita le strutture nazionali con le presenze in bassa stagione. Da qui, però, si potrà ripartire. Rinunciando ai settori tradizionali, alla qualità del made in Italy legata allo stile di vita italiano (che sparirà, trasformandosi nella brutta copia, più poverà, dell’american style), ma lasciando che i giovani precari inventino nuovi modelli, nuovi prodotti, nuovi modi per competere. Accettando la logica della giungla sul posto di lavoro, dimenticando che il vicino di scrivania o di linea è un collega ma trasformandolo in un avversario. Lasciando perdere ogni illusione su qualità, competenza, lavoro bello e ben fatto. Ci sarà altro. Forse.