Lo scorso 11 gennaio 2013, la Francia ha deciso una campagna militare contro il Mali, al fine di difendere il governo di Bamako da alcuni gruppi di ribelli islamici stanziatisi nelle regioni settentrionali di questo Paese africano. I Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu si sono subito schierati col Governo di Parigi e, verosimilmente, ciò accadrà anche per molti Stati africani e la stessa Nato. Il nostro ministro degli Affari Esteri, Giulio Terzi, ha annunciato che l’Italia fornirà il proprio contributo all’operazione, garantendo il “sostegno logistico” dell’Italia. Ma cosa sappiamo veramente del Mali? Perché l’Italia dovrebbe farsi coinvolgere in operazioni militari in un territorio storicamente legato al passato coloniale francese? I confini stessi di questo Paese derivano dalla fase di decolonizzazione, avvenuta alla fine degli anni ‘50 del secolo scorso. Ma l’antico impero del Mali, da cui la nazione odierna prende il nome, sorse intorno al 1200 per opera della popolazione dei Mandinka, che viveva lungo il fiume Niger e che, nel corso dei secoli, ha popolato buona parte dell’Africa occidentale, mentre l’antica regione del Mali ‘propriamente detto’ era solo una parte dello Stato odierno. Intorno al 1350, questo antico impero possedeva solo la valle del Niger e, solo successivamente, si estese fino alle coste dell’oceano Atlantico, attraverso la Mauritania e l’attuale Senegal. Di lì a poco cominciò a frantumarsi e, tra i soggetti che conquistarono l’indipendenza, vi fu il regno musulmano dei Songhai, etnia che oggi costituisce circa il 6% della popolazione maliana. L’impero dei Songhai riuscì effettivamente a governare su quasi tutto il Mali attuale, ma osservandone la conformazione, praticamente parallela all’espansione dei Mandinka, ci si accorge che le grandi compagini statuali dell’area erano costruite attorno all’alto e medio corso del Niger, lungo il fiume Senegal e nella valle del Gambia. Tali caratteristiche geografiche resistettero fino al XIX secolo, ovvero sino alla nascita della colonia denominata Africa occidentale francese. Oggi, la parte meridionale dello Stato copre l’alto bacino del fiume Senegal e quello del Niger, ma non i tratti inferiori, mentre una strana ‘appendice’ desertica si allunga inglobando l’estrema parte meridionale del Sahara. Ciò in quanto proprio i francesi decisero a ‘tavolino’ di annettere amministrativamente la regione da essi definita “Sudan francese”, appiccicandola forzosamente alle antiche valli fluviali. E tale contraddittoria conformazione dell’area rimase in piedi sino alla sua indipendenza, avvenuta nel 1960. Questa arbitrarietà dei confini del Mali è la causa stessa della dualità esistente nel Paese, fortemente influenzato dalle tribù nomadi maghrebine a nord, rispetto alle popolazioni dedite all’agricoltura che vivono lungo tutto il delta del Niger. La capitale stessa, Bamako, sorge nell’alta valle di questo fiume, mentre Timbuctù e Gao si sono sviluppate in corrispondenza del delta interno. Le terre coltivabili producono cereali, ortaggi e frutta, o sono dedite all’allevamento. Ma queste corrispondono solamente a un terzo della superficie totale del Paese, che è grande quattro volte l’Italia. Altra rilevante caratteristica geografica del Mali è che risulta privo di ogni ‘sbocco’ al mare. Di conseguenza, esso dipende strettamente dai Paesi vicini per i commerci e vive enormi difficoltà di controllo dei suoi confini terrestri, i quali per ampi tratti si affacciano sul deserto. Questa arbitrarietà delle frontiere ha dunque storicamente impedito la formazione di una stabile identità nazionale, favorendo una pluralità di etnie alquanto disomogenee. Il 90% dei maliani appartiene a etnie subsahariane: il gruppo principale è quello delle lingue mandè, diffuse in tutta l’Africa occidentale. Appartengono a tale gruppo i già citati Mandinka, che danno il nome al Paese, ma soprattutto i Bambara, gruppo razziale formatosi nel XVIII secolo e oggi divenuto predominante. Poco meno di un quinto degli abitanti appartiene al popolo Fulani, anch’esso distribuito in varie zone nell’Africa occidentale. Quest’ultimo fu il primo a convertirsi all’islam, creando il potente califfato di Sokoto, nell’attuale Nigeria. Una delle caratteristiche della cultura mandè è il sistema castale: tradizionalmente, le varie etnie si sono divise le attività economiche, per cui troviamo i Bambara che fanno gli agricoltori, i Fulani i pastori e i Bozo che si occupano della pesca. Il 10% della popolazione è, infine, rappresentato da due etnie di nomadi settentrionali di origine berbera: i Tuareg e i Mori. I primi, che complessivamente assommano a circa 1 milione e 200 mila persone, vivono nel Sahara muovendosi tra i vari confini desertici. Nonostante ciò, dal punto di vista quantitativo quasi un terzo di essi ha finito con lo stabilirsi in Mali. I Mori, invece, già noti ai tempi dei Romani come Mauri, furono gli antichi conquistatori della Sicilia e della Spagna. Oggi, essi vivono prevalentemente in Mauritania, Stato che proprio da loro prende il nome, ma anche in varie zone del Mali e del Niger, dove sono denominati Azawagh, dalla regione in cui risiedono. L’attività economica tradizionale di queste popolazioni berbere, generalmente nomadi, è la pastorizia. In un quadro così plurale e ricco di complessità, con un sud piccolo ma fertile e popoloso abitato da agricoltori subsahariani e un nord più vasto ma desertico, battuto da nomadi berberi, uno dei pochi elementi uniformanti è rappresentato dalla religione. Il 90% dei maliani è musulmano, sebbene sopravvivano residui animistici e altri culti. L’Islam maliano si è tradizionalmente contraddistinto per la sua moderazione e convivenza pacifica con gli altri culti: solo negli ultimi anni si sono diffuse correnti più radicali. È presente anche una piccola ma non trascurabile presenza cristiana (circa il 5% della popolazione). Come quasi tutti gli Stati multietnici dell’Africa postcoloniale, anche il Mali, dopo l’indipendenza, ha faticato a trovare una stabilità politica. E, sotto il profilo economico, esso risulta essere uno dei peggiori Paesi al mondo per indice di sviluppo umano e con il Pil tra i più bassi dell'Africa. Gli aiuti esteri contano per il 16% del Pil e oltre la metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà nazionale. Dopo l’indipendenza nel 1960, per qualche mese lo Stato si ritrovò federato col Senegal, ma poi riuscì a distaccarsene per opera del leader socialista panafricanista Modibo Keita, di etnia mandinka. Nel novembre 1968, col pretesto delle gravi difficoltà economiche in cui versava il Paese, una giunta militare arrestò Keita, che morì in carcere nove anni più tardi. Capo dello Stato divenne il presidente del Comitato militare golpista, il tenente Moussa Traoré, di etnia bambara ed educazione francese. Traoré modificò la politica socialista del predecessore, ma non la linea autoritaria, che anzi andò accentuandosi. Solo nel 1979, dopo il varo d’una nuova Costituzione, il suo potere fu legittimato tramite una elezione alla presidenza che lo vide come unico candidato. Venne anche creato un Partito, il solo legalmente autorizzato all’esistenza: l’Unione democratica del popolo maliano. Il misto di repressione dittatoriale, corruzione e austerità finanziaria imposta dagli accordi stretti a più riprese col Fondo monetario internazionale alimentarono il malcontento, che all’inizio degli anni ’90 sfociò in manifestazioni di piazza. Nel marzo del 1991, un nuovo golpe destituì Traoré, il quale imprigionato e due volte condannato a morte, oggi vive in libertà in virtù della grazia concessagli dal nuovo presidente, Alpha Oumar Konaré. Konaré, storico bambara-fulani, era stato ministro della cultura di Traoré per un biennio, ma faceva parte dell’opposizione marxista-leninista cui era approdato dopo la giovanile esperienza nella Union soudanaise di Keita. Proprio il primo presidente maliano fu riabilitato con la caduta di Traoré. E, oggi, gli è dedicato lo stadio di calcio della capitale, Bamako. L’elezione alla presidenza avvenne nel 1992, dopo una transizione guidata dal colonnello fulani Amadou Toumani Touré, capo della guardia presidenziale che, ribellatosi a Traoré, lo aveva deposto. Konaré, rappresentante di una nuova Alliance pour la démocratie en Mali (Adema, membro dell’Internazionale socialista) mantenne la presidenza per i due mandati concessi dalla Costituzione, ovvero fino al 2002, anche se la rielezione del 1997 fu offuscata dal boicottaggio dei principali Partiti d’opposizione dopo l’annullamento di una precedente consultazione. Nel 2002, le elezioni presidenziali furono vinte da un candidato indipendente, l’ex colonnello - divenuto nel frattempo generale - Touré: l’uomo che aveva deposto Traoré. Touré governò avvalendosi di uomini di varia estrazione partitica, tanto che, per la sua rielezione, riuscì a ottenere anche l’appoggio della Adema. Il termine legale dei due mandati prevedeva una fine naturale della presidenza di Touré proprio nel 2012. C'è da dire che, sin dai tempi dell’indipendenza, la politica maliana è stata appannaggio degli esponenti dei gruppi etnici subsahariani del sud. Ma la parte settentrionale della popolazione ha spesso trovato il modo di far sentire la propria voce, soprattutto dalla fine degli anni ’80. In quel periodo cominciarono, infatti, a rientrare un gran numero di Tuareg che, a seguito di una grave siccità verificatasi negli anni ’70, erano emigrati in Algeria e Libia. Ciò generò tensioni interetniche nelle aree settentrionali, cui l’allora presidente Traoré rispose con la proclamazione dello stato di emergenza e la repressione dei Tuareg, sostenuti dalla Libia di Gheddafi. Alcune aperture di Konarè nella regione di Kidal, nell’estremità nord-orientale, insieme ad altre iniziative di integrazione, portarono a una tregua. Ma già nel 1994, i Tuareg attaccarono Gao e cominciarono a scontrarsi nuovamente sia con l’esercito maliano, sia con milizie istituite dai Songhai, i subsahariani che vivono nell'estremo nord del Paese. Nel 1996 fu raggiunto un accordo, che prevedeva maggiori trasferimenti di denaro dal Governo centrale alle regioni Tuareg, Kidal in particolare, oltre alla possibilità per i Tuareg di accedere a cariche e funzioni civili a Bamako. Questa nuova tregua è durata una decina d’anni, dopo i quali alcuni gruppi Tuareg, scontenti dall’applicazione dell’accordo, hanno ripreso le armi. La situazione è degenerata fino a trasformarsi in una nuova aperta rivolta nel 2012, posti in relazione anche con gli eventi avvenuti nella vicina Libia. Si ritiene, infatti, che numerosi Tuareg abbiano partecipato alla guerra civile dalla parte di Gheddafi e che, dopo la sconfitta, siano rientrati in Mali con in dote nuove esperienze belliche e nuovi armamenti. Le stime variano tra gli 800 e i 4 mila veterani rientrati dalla Libia. A condurre la lotta è il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla). Azawad è infatti il nome che i Tuareg danno al Mali del nord, ossia a quell’appendice superiore che guarda verso il deserto del Sahara. Per quanto creatura dell’indipendentismo Tuareg, il Mnla rivendica di rappresentare anche i Mori, i Fulani e tutte le altre etnie che vivono nel Mali settentrionale. Tra gennaio e marzo 2012, il movimento ha preso il controllo di gran parte del nord del Paese. L’esercito maliano, ripetutamente sconfitto, ha scaricato la colpa sul Governo, biasimato per aver fornito armi ed equipaggiamenti insufficienti. Il 22 marzo, una rivolta militare, scoppiata nella base di Kati, ha portato alla presa di Bamako e alla proclamazione di un Governo di transizione, guidato dal capitano Amadou Sanogo. Il golpe ha però incontrato forti ostilità, sia all’interno del Mali, sia a livello internazionale. Il disordine creatosi nel Paese ha portato, inoltre, alla caduta delle tre maggiori città settentrionali, ancora in mano ai governativi: Goa, Kidal e Timbuctù. Dopo tali conquiste, il Mnla ha proclamato l’indipendenza dell’Azawad. I militari ribelli, vista la situazione, hanno preferito scendere a patti e accettare una mediazione della Ecowas, l’organizzazione di cooperazione degli Stati dell’Africa occidentale, in virtù della quale Touré è stato sostituito da un presidente a interim (Dioncounda Traoré della Adema) e i golpisti hanno ricevuto l’immunità. La situazione politica a Bamako è comunque ben lontana dall’essersi stabilizzata: il 10 dicembre scorso Cheick Modibo Diarra, capo del Governo provvisorio di unità nazionale, è stato arrestato da militari vicini al capitano Sanogo e costretto alle dimissioni. Pare che il pomo della discordia fosse l’accettazione, da parte di Diarra, di un intervento diretto di truppe straniere dell’Ecowas nel nord del Paese, mentre i militari maliani vorrebbero un semplice appoggio finanziario e logistico. Il ruolo di primo ministro è attualmente detenuto da Django Sissoko, funzionario di lungo corso che ha servito sia sotto la dittatura, sia nei successivi governi civili e che ha lavorato anche per il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. A rendere ancor più complessa la situazione è stata l’apparizione in tale scenario di movimenti islamisti radicali nel nord del Paese, divenuti protagonisti di rilievo nella guerra civile in corso. Il gruppo principale è quello di Ansar ad-Din, anch’esso di matrice prevalentemente Tuareg. Il suo capo, Iyad Ag Ghaly, è stato uno dei leader delle ribellioni dagli anni ’80 a oggi, ma ha aderito al radicalismo di matrice ‘deobandi’ durante la sua permanenza in Arabia Saudita in qualità di diplomatico. Scopo di Ansar ad-Din sarebbe mutare il carattere laico dello Stato maliano e imporre una stretta osservanza della sharìa. Il gruppo islamista, la cui consistenza numerica pare comunque più ridotta rispetto al Mnla, ha inizialmente combattuto al suo fianco, ma nel corso del 2012, dopo la conquista di gran parte dell’Azawad, sono cominciati a sorgere conflitti a causa della distruzione di mausolei sufi da parte degli islamisti. Le due formazioni hanno quindi cominciato a combattersi nel giugno 2012 e Ansar ad-Din si è assicurato il controllo di tutti i principali centri urbani del Mali settentrionale. Il Mnla, che controlla ora solo aree rurali e desertiche dell’Azawad, sta riavvicinandosi al governo di Bamako, plausibilmente sulla base della concessione di un’ampia autonomia, per affrontare la comune minaccia islamista. Questo è, insomma, il ‘teatro di crisi’ in cui s’inserisce l’intervento francese, preparato sul piano diplomatico tramite l’emanazione dei due risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la n. 2071 e la n. 2085 - rispettivamente del 12 ottobre e del 20 dicembre 2012 - che prevedono il dispiegamento di una missione militare africana di supporto all’esercito del Mali. Ma a seguito della presa della città di Konna, sulla riva destra del Niger, da parte degli islamisti il 10 gennaio scorso, i Francesi hanno deciso di passare all’azione, al fine di non perdere l’importante aeroporto militare di Sévaré. L’11 gennaio è stata dunque lanciata la Opération Serval, una campagna di attacchi aerei contro le postazioni degli islamisti, cui ha fatto seguito l’impiego di truppe di terra. Ufficialmente, l’intervento francese viene motivato con la volontà di tutelare l’integrità territoriale del Mali e combattere il terrorismo. Il presidente francese, François Hollande, nel corso di una conferenza stampa, ha più volte sottolineato come l’intervento di Parigi sia del tutto disinteressato. Appare tuttavia più credibile ipotizzare che l’iniziativa francese s’inserisca nel quadro dell’attivismo che la Nato, in particolare i Governi di Washington, Londra e Parigi, stanno dimostrando nei confronti dell’Africa da quando è divenuta netta ed evidente la penetrazione economica e diplomatica della Cina. Nel 2007, gli Stati Uniti hanno, per la prima volta, istituito un apposito comando militare per l’Africa: l’Africom. Questo comando ha gestito sia la campagna di bombardamenti di droni ancora in corso in Somalia, sia l’operazione Odissey Dawn, culminata col rovesciamento di Gheddafi in Libia, in cui Francesi e Inglesi hanno avuto un ruolo di rilievo. Di recente, gli Stati Uniti hanno aumentato il loro coinvolgimento militare anche in Uganda. E pressioni occidentali sono risultate decisive, in questi ultimi anni, per permettere la secessione del Sud Sudan dal Sudan. La stessa Francia, nel 2011, è intervenuta militarmente per deporre il contestato presidente della Costa d’Avorio. A tal proposito non va dimenticato che il Mali è il terzo maggiore produttore africano di oro e che, nel suo territorio, si trovano anche diverse altre risorse minerarie, come per esempio l’uranio. Miniere di uranio sfruttate dalla francese Areva si trovano nel vicino Niger. Recentemente, si è ipotizzata la presenza di petrolio e gas naturale nel nord del Mali. L’esigenza per i Francesi, il Governo del Mali e i Paesi Ecowas è perciò quella di portare a termine le operazioni militari prima dell’inizio della stagione delle piogge, in primavera. Malgrado numericamente contenuti, gli islamisti hanno dimostrato, rovesciando il controllo del Mnla sulle grandi città del nord e resistendo in quel di Konna, di essere un avversario impegnativo e tenace. Le dimensioni del Paese, le vaste aree desertiche e la labilità dei confini sono tutti elementi che agevolano le tattiche di guerriglia adottate da Ansar ad-Din. Le poche migliaia di soldati che il Mali e l’Ecowas hanno organizzato risultano pertanto insufficienti e mal impiegate, almeno al momento, per controllare il Paese, soprattutto ai confini col Niger, dove esiste una forte comunità tuareg. L’Unione europea in questa fase si è detta disposta ad assicurare qualche centinaio di istruttori militari, mentre gli americani sembrano disinteressati, per problemi finanziari interni a impiegare truppe di terra. I Francesi sono perciò costretti a farsi carico della maggior parte del peso e dei rischi dell’operazione. Decisivo sarà l’atteggiamento che i Tuareg manterranno, vista la loro capacità di controllo sulle aree desertiche. Il Mnla si è schierato coi Francesi, ma bisognerà vedere se tale decisione verrà considerata rappresentativa anche della popolazione Tuareg. Anche perché, per portare a successo questo genere di operazioni, serve principalmente un progetto politico chiaro e lungimirante circa il futuro del Mali e delle sue popolazioni, affinché questo Paese non si ritrovi, un domani, abbandonato nella più totale instabilità interna o addirittura in preda alla guerra civile.